Fr. Prospero Rivi OFMCap
- Dział: Sussidi per le Costituzioni
NOTE DI INTRODUZIONE ALLA
PREGHIERA CONTEMPLATIVA
di fr. Prospero Rivi OFMCap
“Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me!” (Gv 12, 32):
San Francesco attirato nel vortice dell’amore di Cristo.
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Il titolo che ho dato a queste pagine delimita e chiarisce il taglio del percorso che viene qui proposto. Non si intende descrivere la natura e i caratteri di quella che comunemente è chiamata preghiera contemplativa o di raccoglimento, e che la tradizione francescana ha definito di preferenza orazione mentale. Si vogliono soltanto suggerire alcune disposizioni interiori che possono favorire un proficuo itinerario di preghiera personale così come la tradizione dei Cappuccini ha sempre cercato di coltivare e che anche le loro attuali Costituzioni caldeggiano con forza nell’intenso capitolo III.
Nel corso del cammino emergerà anche l’intreccio fecondo che vi è tra i due ambiti fondamentali di ogni autentica esperienza cristiana: la preghiera e le relazioni fraterne.
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“Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta,
prega il Padre tuo nel segreto;
e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6, 6).
“Il cristiano esiste o scompare con la preghiera” (H. U. Von Baltahasar)
“Credo perchè prego“ (K. Ranher)
“Il mio segreto è molto semplice: prego,
e nella preghiera mi innamoro di Gesù.
E capisco che pregarLo è amarLo,
e che questo significa adempiere la sua Parola” (Madre Teresa di Calcutta)
“Se voi aveste perduto il gusto della preghiera,
ne sentireste di nuovo il desiderio
rimettendovi umilmente a pregare” (Paolo VI, Ev. Test., 42).
“La preghiera è il respiro dell’anima ed è l’oasi di pace
in cui possiamo attingere l’acqua
che alimenta la nostra vita spirituale
e trasforma la nostra esistenza” (Benedetto XVI).
«Amiamo tutti il Signore Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima, con tutte le doti che possiamo avere, con tutta la volontà e l’intelligenza, con tutte le forze, i sentimenti e gli affetti, perché Egli ci ha dato e ci dà il corpo, l'anima e la vita, ci ha creati, e ci ha redenti, e ci salverà per la sua sola misericordia» (San Francesco, Rnb XXIII: FF 69).
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PREMESSA
Nel settembre del 2017 ho concluso il mio servizio di formatore dei giovani in cammino verso la vita religiosa. Avendo cominciato nel 1972 e avendo fatto una pausa di tre anni per studi superiori a Roma, sono 42 gli anni in cui sono stato a contatto con degli adolescenti prima e poi con dei giovani. Dal 1985 in poi ho avuto il compito di formare i candidati alla vita francescano-cappuccina del nord-ovest: 20 anni come Maestro dei Novizi, 5 anni con i Postulanti, 3 anni con gli Studenti in Postnoviziato.
Nel 1989-‘90, durante il mio servizio come maestro dei novizi, da Vignola abbiamo visitato più volte la vicina comunità monastica di Monteveglio (BO), fondata negli anni ’60 da Don Giuseppe Dossetti. Volevamo essere aiutati ad approfondire il tema della preghiera, con una particolare attenzione per la “Preghiera del Nome”. Ci è stato consigliato di fare una serie di incontri con Madre Agnese Magistretti, per lunghi anni superiora e formatrice delle sorelle della “Piccola famiglia dell’Annunziata”. Ella ci chiese il testo delle nostre Costituzioni per poter esaminare con attenzione il capitolo sulla preghiera. Quando ci rivedemmo per l’incontro successivo, Madre Agnese non cessava più di esprimere la sua ammirazione per le straordinarie caratteristiche che aveva riscontrato nel nostro testo legislativo. Non aveva mai visto nulla di simile nei molti altri analoghi documenti che aveva consultato nel suo lungo servizio di co-fondatrice e formatrice. Le nostre Costituzioni l’avevano incantata per il sapiente equilibrio con cui tengono insieme l’aspetto normativo e quello ispirativo, riuscendo in tal modo a trasmettere per intero in un solo testo la ricchezza del nostro carisma. Un apprezzamento particolare lo esprimeva poi per il capitolo III, che ha considerato un autentico capolavoro e che ha voluto seguire come traccia in tutti i successivi incontri che abbiamo fatto. E’ stato bello per noi che un tale apprezzamento ci venisse da una persona che lasciava trasparire una profonda esperienza interiore, e che ricopriva da tempo un ruolo importante in una comunità che si distingueva per la forte dimensione contemplativa. Un incoraggiamento a studiarle, queste nostre benedette Costituzioni, per conoscerle ed amarle di più e per cercare di viverle meglio. E ciò a partire da questo straordinario capitolo III, che è come il cuore del nostro testo fondativo e che personalmente ho considerato sempre in punto di forza nella formazione dei giovani.
Le note che qui ho cercato di riferire, andando incontro anche alla richiesta di numerosi frati, suore e laici a cui le ho proposte in Ritiri e Corsi di Esercizi Spirituali, sono in buona parte il frutto di questa lunga “scuola di preghiera”. Esse sono state pensate e stese in primo luogo per coloro che appartengono alla famiglia francescana e vorrebbero essere un modesto contributo a continuare una riflessione che favorisca il recupero di questa dimensione contemplativa che rimane una componente essenziale del nostro carisma, e ciò non solo a nostro vantaggio, ma a beneficio del Popolo di Dio, che ha bisogno urgente di recuperare anch’esso questa “preghiera profonda” al fine di conservare la fede gustandone la bellezza.
Come ci chiedeva la Novo millennio ineunte[1], ogni nostra fraternità dovrebbe divenire una “scuola di preghiera” intesa appunto come avviamento e accompagnamento alla preghiera contemplativa, la sola che possa garantire il persistere della fede tra la nostra gente[2].
La mia generazione ha faticato molto ad accettare il recupero di questo valore peculiare della tradizione francescana, e le resistenze sono state - e in parte sono ancora - molteplici e argomentate con acribia. I giovani invece in genere sono desiderosi di ricevere questo nutrimento, e so che coloro che sono approdati positivamente alla scelta definitiva della nostra forma di vita la praticano fedelmente e con gioiosa convinzione.
Ho considerato un dono grande la bella lettera circolare che nel 2016 il Ministro Generale, fr. Mauro Jori, ha inviato a tutti i componenti della Famiglia Cappuccina. Con riferimento al capitolo III delle Costituzioni, egli ha ribadito l’importanza della preghiera in generale, ma soprattutto ha richiamato con delicato e fraterno vigore proprio la necessità di recuperare l’Orazione mentale, da farsi sia in comune che in privato. Da questo suo appello e dal suo successivo incoraggiamento sono stato sollecitato a stendere queste note. Possono essere lette sia come una introduzione che come un commento al capitolo III delle nostre Costituzioni.
INTRODUZIONE
Chiariamo i termini. Che cosa si intende per “orazione mentale”?
Il Catechismo degli Adulti della CEI (n. 997) chiama l’orazione mentale “orazione di raccoglimento” e ne parla in questi termini:
«Con l’andar del tempo l’esercizio della meditazione (che consiste nel riflettere su qualche verità della fede, per crederla con più convinzione, amarla come un valore attraente e concreto, praticarla con l’aiuto dello Spirito Santo... implica riflessione, amore e proposito pratico: n. 996) si semplifica, il cuore prevale sulla riflessione. Si arriva gradualmente all’orazione di raccoglimento. Ci si libera da immagini e pensieri particolari, da ricordi, preoccupazioni e progetti. Si rivolge una semplice attenzione amorosa a Dio, a Gesù Cristo, a qualche sua perfezione, a qualche evento salvifico. Si rimane in atteggiamento di amore silenzioso davanti al Signore presente nel nostro intimo. Ci si lascia trasformare dal suo Spirito, che può causare consolazione o desolazione, ma senz’altro purifica e fortifica nella carità. Quando il fervore di questa esperienza si attenua, è bene ritornare alla meditazione discorsiva o alla preghiera vocale».
1. Il combattimento della preghiera
E’ un dato di fatto che chi si propone di pregare di più e meglio scopre molto presto che pregare è difficile. Perché?
> La preghiera è un atto interiore, spirituale: e gli atti interiori risultano pesanti per noi che siamo impastati di materia e protesi verso le cose che colpiscono i sensi. Questo è vero soprattutto oggi per noi, che viviamo sommersi da un fiume di immagini, di parole, di suoni e di sensazioni.
> La preghiera è un atto che coinvolge l’intelligenza ed il cuore, e dunque un impegno faticoso. In genere, noi lavoriamo più volentieri con le mani che con la testa; e anche chi si reputa un intellettuale lavora assai più spesso con la fantasia o con la sola intelligenza, più che con cuore ed intelligenza insieme.
> La preghiera è un comunicare con l’invisibile: pregando noi non vediamo, non sentiamo e non tocchiamo il nostro interlocutore, che è il Signore (i nostri sensi sono tutti in tilt): non meravigliamoci se fatichiamo a conservare su di Lui la nostra attenzione (è il problema delle tante distrazioni, su cui torneremo).
> Siamo pigri per natura (chi più, chi meno). La preghiera vera costa anche a motivo della nostra congenita pigrizia nel portare avanti le cose impegnative e serie. Se ci richiede sforzo e buona volontà apprendere una professione o un’arte, imparare comunque qualcosa di difficile e non istintivo, non meravigliamoci che all’inizio anche la preghiera richieda un notevole sforzo: è normale, e sarebbe scorretto ritenere che essa non faccia per noi semplicemente perché non ci riesce facile e spontanea. Essa, diceva un vecchio e saggio frate, è “l’arte di tutte le arti”.
> C’è poi il mistero del male e l’azione del grande Tentatore-Accusatore (Satana o Diavolo, il separatore, il divisore), che per definizione cerca di distogliere l’uomo dall’unione con Dio e dunque pone tanti ostacoli sul nostro cammino verso una preghiera più profonda e più vera. Ma con la Pasqua del Signore a noi è stato donato il Paraclitos: l’Avvocato-difensore che è seduto al nostro fianco ed alimenta nel nostro cuore la fiducia-parresia che è propria di chi ha conosciuto ed accolto la “buona notizia” di essere divenuto figlio amato nel Figlio Unigenito.
> “Quando pregate, non sprecate parole come i pagani” (Mt 6,7).
L’amore e l’amicizia sono veramente profondi solo quando è possibile rimanere in silenzio con l’altro. Finché si ha bisogno di parlare per mantenere il contatto, vuol dire che il rapporto è ancora superficiale. Così avviene nel rapporto col Signore: la nostra preghiera è approdata alla maturità quando abbiamo imparato a sentirci bene accanto a Lui, a non temere di stare in silenzio sotto il suo sguardo. Se siamo impegnati ad amare non con la lingua, ma con i fatti e nella verità, “davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri, perché Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1 Gv 19-20). Egli sa che siamo piccoli e fragili, e ci ama già così come siamo; ci chiede solo di mantenerci in cammino… “Chi è l’uomo? – si chiedeva don Primo Mazzolari – uno in cammino verso Cristo!”[3].
> Ma l’ostacolo maggiore per giungere ad un’autentica esperienza contemplativa mi pare sia l’inquietudine del nostro cuore, che ci fa sentire poco amabili e ci porta a dubitare continuamente di essere graditi al Signore[4]. E stare a lungo in silenzio vicino ad una persona che riteniamo non sia contenta della nostra presenza e che non percepiamo ben disposta verso di noi ci mette a disagio e ci risulta difficile. Insoddisfatti come siamo sovente di noi stessi, temiamo che lo sia di noi anche il Signore, e allora siamo tentati di sottrarci al suo sguardo. Ma si tratta di un tema delicato e complesso che va approfondito e su cui dunque dovremo tornare.
2. Preghiera personale e preghiera liturgica.
Sull’importanza assoluta della preghiera liturgica (S. Messa, Sacramenti, Liturgia delle Ore…) mi pare non sia il caso di insistere: essa è fuori discussione, poiché tutti sappiamo che il Signore Gesù viene “oggettivamente” a noi come Acqua viva (ex opere operato, si diceva un tempo) attraverso i canali della Parola di Dio, delle azioni liturgiche, quindi attraverso i Sacramenti, in modo particolare nell’Eucarestia, culmen et fons di tutta la vita della Chiesa.
Ma per attingere “di fatto” la salvezza da quell’Acqua viva che passa accanto a noi attraverso i canali che il Signore ha donato alla sua Chiesa, dobbiamo disporre di un recipiente capace di contenere tale Acqua viva, ed è ravvisabile nella nostra fede più o meno viva (le disposizioni interiori che abbiamo e l’intensità della nostra fede sono quello che si diceva l’ex opere operantis).
Qualcuno potrebbe chiedersi: ma davvero la preghiera personale è così importante? Non basta quella comunitaria, in particolare quella che viviamo con la Chiesa attraverso la Liturgia e i Sacramenti?
Una prima risposta ce la dà san Giovanni Crisostomo:“La preghiera personale e quella liturgica stanno tra loro come la brace e l’incenso: se non c’è la brace, non brucia l’incenso”.
Un’altra risposta non sospetta ci viene da Y. Congar, il grande teologo domenicano considerato il padre della Costituzione Conciliare Lumen gentium. Egli diceva: “Con la preghiera riceviamo l’ossigeno per respirare, con i sacramenti ci nutriamo. Prima del nutrimento, c’è la respirazione; e la respirazione è appunto la preghiera personale”.
Siamo in perfetta sintonia con quella tradizione francescana che ha sempre inteso la preghiera come respiro d’amore, e che mirabilmente - anche se sobriamente - è confluita nelle attuali Costituzioni dei Cappuccini, le quali aprono il bel capitolo III su La vita di orazione dei Frati con queste parole: “L’orazione rivolta a Dio, come respiro d’amore, prende vita dall’azione dello Spirito Santo mediante la quale ci mettiamo interiormente in ascolto della voce di Dio che parla al cuore”.
Va tenuto presente inoltre che “la preghiera cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all’interno di quella ‘comunione dei santi’ nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica quanto in forma privata… Il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito Santo, insieme con tutti i santi per il bene della Chiesa”[5].
3. Conoscenza di Dio e conoscenza di sé.
“Chi sei Tu, dolcissimo Signore mio, e chi sono io?” (San Francesco)
Lo star bene con se stessi e con gli altri dipende in larga misura dal nostro star bene con il Signore. La qualità della nostra vita è in relazione con la qualità della nostra preghiera, e viceversa.
Il modo di pregare di una persona rivela il suo modo di vedere/sentire Dio e il tipo di rapporto che essa ha con Lui. Ma oltre che rivelazione del volto che noi diamo a Dio, la preghiera è pure rivelazione del nostro volto più profondo e segreto, quello che lasciamo emergere solo davanti a Lui. Ha dunque una sua verità il duplice adagio: dimmi come preghi e ti dirò chi è il tuo Dio - dimmi come preghi e ti dirò chi sei.
Da una parte è vero infatti che uno dei frutti della preghiera é il fatto di entrare progressivamente in una più profonda conoscenza di Dio. Non un Dio riguardo al quale ci accontentiamo di alcune idee ereditate dalla nostra educazione o dalla nostra cultura, o ancora un Dio che sarebbe il prodotto delle nostre proiezioni psicologiche, ma il Dio vero. La preghiera ci permette di passare dalle nostre idee su Dio, dalle nostre rappresentazioni (spesso false o troppo strette) a un’esperienza di Dio. E’ molto diverso. L’oggetto principale di questa rivelazione personale di Dio, frutto essenziale della preghiera, é conoscerlo come Padre. Per mezzo di Cristo, nella luce dello Spirito, Dio si rivela come Padre tenero e misericordioso.
Ma è vero anche che l’uomo può conoscersi veramente solo nella luce di questo Dio. Tutto ciò che può conoscere di se stesso mediante mezzi umani (esperienza della vita, psicologia, scienze umane) non è da disprezzare, beninteso. Ma ciò dà solo una conoscenza limitata e parziale del suo essere. Egli ha accesso alla sua identità profonda solo nella luce di quel Dio che si è rivelato pienamente come Padre tenero e misericordioso nel volto del Cristo crocefisso e risorto. Questa scoperta di Dio come Padre, frutto che matura con la fedeltà all’orazione, è la cosa più preziosa al mondo, il più grande dei doni dello Spirito [6].
4. Saper stare in silenzio
Questo l’itinerario suggerito da quella grande Maestra di vita spirituale che è stata s. Madre Teresa di Calcutta:
DAL SILENZIO, LA PREGHIERA - DALLA PREGHIERA, LA FEDE -
DALLA FEDE, L’AMORE - DALL’AMORE, IL SERVIZIO -
DAL SERVIZIO, LA PACE, LA SERENITA’, LA GIOIA DEL CUORE.
Se non impariamo a coltivare tempi di silenzio, avremo solo di-strazione, di-versione, quel di-vertissement che Pascal indicava come l’ostacolo principale alla con-versione a cui ci chiama il Signore e che costituisce il solo percorso verso una vita pienamente umana. Infatti, siamo all’apice della nostra umanità solo quando viviamo da figli di Dio in quel Figlio Unigenito “che gli basta sempre in tutto e per il quale ha fatto a noi cose tanto grandi” come dice Francesco (Rnb, 23,5: FF 66). La contemplazione – come sosta silenziosa e serena sotto lo sguardo di quel Dio il cui volto è quello stesso di Gesù – è allora l’espressione più alta dell’amore. Essa si attua quando dal colloquio fatto con le parole si è giunti alla possibilità di dialogare con un silenzio che esprime ancor meglio il bene che ci si vuole. L’esperienza ci insegna infatti che un’amicizia è veramente profonda solo quando è possibile rimanere in silenzio con l’altro. Finché si ha bisogno di parlare per mantenere il contatto, vuol dire che il rapporto è ancora superficiale. Così avviene nel rapporto col Signore: la nostra preghiera è approdata alla maturità quando abbiamo imparato a sentirci bene accanto a Lui, in silenzio.
Anche nella pratica classica della Lectio divina la “contemplatio” è il punto di arrivo dei tre momenti che la precedono: la lectio (lettura attenta del testo scelto), la meditatio (collegamento della Parola che ho esaminato alla mia esperienza concreta) e la oratio (invocazione della Grazia per poter vivere quanto ho compreso). Nel nostro caso “contemplatio” vuol dire favorire quel silenzio interiore che mi consente di riconoscere la presenza fedele del Signore nel tratto di vita che ho già percorso e, alla luce della Sacra Scrittura, sapervi leggere quella “storia di salvezza” che Lui, il Signore, sta portando avanti anche con me.
A scanso di equivoci e per non essere ingenui, credo sia utile precisare fin d’ora che il tipo di preghiera di cui stiamo parlando non lo si improvvisa, non può partire ed essere portato avanti così, a caso, affidati alla buona stella, e non è una proposta da fare a dei principianti nella fede. Ma può essere il punto di approdo di un’esperienza cristiana giunta già ad una certa maturità: richiede (e presuppone!) un retroterra teologico corretto, frutto di una seria e costante frequentazione della Parola. Come avremo modo di ribadire più e più volte, possiamo sperimentare quel rapporto di confidenza filiale e di umile audacia che l’orazione mentale vuol favorire e far crescere[7] solo se in noi avremo fatto spazio al vero volto del Dio vero, quello che abbiamo conosciuto in pienezza nel Figlio inchiodato sulla croce e col cuore squarciato, e non ad altre immagini del divino che siano a misura dei nostri piccoli pensieri o frutto delle ataviche paure del nostro cuore.
Dobbiamo riconoscere tuttavia che dal silenzio, invece di una preghiera vera e pacificatrice, possono venire il tedio e la frustrazione.
Di fatto, solo davanti a quel Dio che ha il volto di Cristo e dal quale so di essere amato di un amore “agapico” (a prescindere cioè dai miei meriti e dunque anche nella mia strutturale povertà) posso fermarmi in silenzio, vincendo la tentazione di fuggire davanti alla mia miseria, a quella fragilità che è inscindibile dalla finitudine propria della mia condizione creaturale.
Con le sue molteplici espressioni di limite sul piano fisico, etico e spirituale, la mia finitudine mi accusa e mi pone in un disagio interiore che mi spinge a “stare fuori da me stesso” (ad essere dunque un “alienato”), preferendo alla solitudine che il silenzio mi fa sperimentare la compagnia rumorosa della TV, di internet, della musica più o meno continua.
Solo se mi lascio addomesticare dal Signore - come la volpe dal Piccolo Principe - posso giungere a vivere riconciliato con il mio limite e pur sempre in cammino verso la maturità in Cristo. La paziente e progressiva frequentazione di quel Dio che in Cristo si è chinato sulla mia finitudine, l’ha assunta su di sé e l’ha così redenta, fa crescere in me la gratitudine commossa per un amore sempre immeritato che risana le ferite e consente al mio cuore di sperimentare una pace profonda. “Siéditi, cuore mio - direbbe Santa Chiara - perché Colui che ti ha creato, ti ha anche amato e redento; e Tu, Signore che mi hai creato, sii benedetto” (cf. Processo 3, 20-22: FF 2986; e Leggenda 46: FF 3252).
“Nel nascondimento e nel silenzio si compie l’opera della Redenzione, nel silenzioso colloquio del cuore con il Signore si preparano le pietre vive con le quali viene innalzato il Regno di Dio,
e si forgiano gli strumenti scelti che cooperano alla sua costruzione” (Edith Stein).
Saper fare silenzio. . .
Cerca di fare silenzio dentro di te,
un silenzio profondo e quieto,
che non crea il vuoto, ma apre il cuore all'ascolto
e consente di avvertire pian piano una Presenza
discreta ma reale, la presenza del tuo Dio,
che si è rivelato pienamente nel Volto di Cristo
e che è innamorato di te…
Lui ti conosce e sa tutto di te, eppure ti ascolta:
vuole che tu gli dica la profonda nostalgia che hai di Lui…
poi ti parla per dirti che ti ama,
e si dona a te perché tu sia colmo di Lui,
reso finalmente capace di amare i fratelli…
Fai tacere le tue parole,
per ascoltare la sua Parola vivente,
quel “Vangelo/lieta notizia”
della quale soltanto sei davvero affamato…
E lasciati ricostruire da essa, sommessamente, con tenerezza,
fino a che il cuore non si sia seduto e si dilati
in una fiducia audace che è dono dello Spirito:
quella di chi sa di essere “figlio amato nel Figlio Unigenito” …
Hai il coraggio di stare da solo con Lui?
Vuoi entrare in questa comunione d'amore,
la sola capace di dare solidità alla tua vita?
Il Signore tuo Dio ti sta cercando da tempo.
Ora sta alla porta del tuo cuore e bussa.
E’ il Dio-amore che vuole parlarti del suo amore per te...
non aver paura… ascolta… e benedici…
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CAPITOLO I
ALCUNI PRESUPPOSTI
In questo capitolo intendiamo vedere alcuni temi che possono giocare un ruolo prezioso nel favorire il decollo nell’esperienza di preghiera che abbiamo cercato di descrivere sin qui.
Un primo argomento sarà la corretta “messa a fuoco” del vero volto di Dio, dal momento che l’immagine di Dio che “naturalmente” l’uomo tende a farsi è assai lontana da quella che ci è stata rivelata da Dio stesso nella Pasqua del Figlio Unigenito.
Un altro punto importante è quello di imparare a leggere, sotto la guida dello Spirito, la nostra vicenda personale in termini di “storia della salvezza”, operando quel salto enorme che ci fa passare dalla religione alla fede.
Infine, faremo una sobria presentazione della “Preghiera del Nome”, un tipo di preghiera di cui molti possono aver sentito parlare poiché da tempo ormai è giunta a conoscenza dei cristiani anche in Occidente, ma che forse pochi hanno poi avuto il coraggio di avvicinare di più per provare ad inserirla stabilmente nella propria vita spirituale. Anch’essa, infatti, non si lascia avvicinare e non concede la ricchezza del suo profumo se non da chi ne ha approfondito e colto il senso vero ed ha avuto poi la costanza di praticarla con fedeltà. “Ripetuta spesso da un cuore umilmente attento, l’invocazione del santo Nome di Gesù è la via più semplice della preghiera continua” (CCC n. 2668). Ne parliamo brevemente perché riteniamo sia uno strumento utile per chi ha deciso di affrontare il deserto dello stare in silenzio sotto lo sguardo del Signore.
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1. Il Cristo crocefisso, rivelazione piena e definitiva del volto del Dio-Amore
“Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre!” (Gv 14, 8)
Per approdare ad un’autentica esperienza di Dio, così come può avvenire nella preghiera contemplativa, occorre che si sia radicata in noi la conoscenza del volto di Dio che ci è stato rivelato in pienezza dal Figlio Unigenito: “Filippo, chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,8). E per fare ciò, occorre rivedere il significato della morte in croce del Signore.
La teologia si è sempre interrogata sulla ragione per cui il Figlio di Dio si è lasciato inchiodare sulla croce. E la risposta più pertinente che oggi va emergendo[8] è che solo così Egli ha potuto portare a termine la missione affidatagli dal Padre: quella di correggere/risanare le gravi storture che sull’identità di Dio l’uomo aveva elaborato nel tempo, compresa l’immagine che di Lui viene offerta in molte pagine dell’Antico Testamento. In altre parole, solo in Gesù, e in Gesù crocifisso e risorto, è dato a noi di conoscere il vero volto dell’unico vero Dio, che non è più il “Dio ignoto” su cui proiettare le immagini “oscene”[9], ossia fuorvianti, che abbiamo attribuito ai nostri tanti idoli, ma è ormai per noi il Padre del Signore nostro Gesù Cristo, ed è con Lui soltanto che ci è chiesto (e donato!) di entrare in relazione mediante il Figlio Unigenito e guidati dallo Spirito Consolatore.
Un ostacolo da superare allora è l’interpretazione ancora diffusa - sia nei piani alti di una certa teologia come a livello di pietà popolare - della morte di Gesù in croce come espiazione necessaria voluta da Dio Padre per l’offesa infinitamente grave fatta a Lui, l’infinitamente grande, dal peccato di Adamo e da quelli, innumerevoli, compiuti dagli uomini lungo i secoli. Un Dio inteso così non si differenzia dagli idoli assetati di sangue che gli uomini hanno elaborato nelle diverse culture[10]. Purtroppo questa interpretazione “espiatrice/soddisfatoria”, presentata con sottile sillogismo da un teologo autorevole quale è stato Anselmo d’Aosta (1033-1109), ha dominato in occidente la teologia e la catechesi sino ad un recente passato. Il Giansenismo, sorto in Francia nel secolo XVII, ne è stata l’espressione più cupa e duratura. Si può dire che solo con il Concilio Vaticano II si sono prese le distanze da questa lettura e si è cominciato a voltare pagina, recuperando una interpretazione più corretta dei dati biblici[11].
Qual è dunque il significato profondo della morte di Gesù? Che cosa è avvenuto di tanto decisivo sulla Croce da giustificare la sua assoluta centralità già nel primo annuncio cristiano, e con una forza tutta particolare in Paolo? È avvenuto che Dio ha vinto definitivamente il male, senza distruggere con esso la libertà che l'ha prodotto. Non lo ha vinto sbaragliandolo con la sua onnipotenza e ricacciandolo fuori dei confini del suo Regno, ma prendendolo su di sé, soffrendone lui, in Cristo, le conseguenze e vincendo il male con il bene, che è come dire: l'odio con l'amore, la ribellione con l'obbedienza, la violenza con la mitezza, la menzogna con la verità. Sulla croce, Gesù «ha fatto la pace, distruggendo in se stesso l'inimicizia» (Ef 2,15). Distruggendo l'inimicizia, non il nemico; distruggendola in se stesso, non negli altri.
Ce lo spiega con la consueta chiarezza il Papa-teologo:
«Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l'Apostolo vuole ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è sempre Colui che è stato crocifisso. Lo “scandalo” e la “stoltezza” della Croce stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore, sconfitta, proprio lì c'è tutta la potenza dell'Amore sconfinato di Dio, perché la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon, cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo, con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i Giudei la Croce contraddice l'essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato con segni prodigiosi.
Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una profonda conversione nel modo di raffigurarsi e di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei Padri; per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría, stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale; quindi più che un errore, è un insulto al buon senso… Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta non è difficile: la Croce rivela “la potenza di Dio” (cf 1,24), che è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: “Ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore che arriva fino alla Croce per salvare l'uomo.
Dio si serve di modi e strumenti che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una parte, la debolezza dell'uomo e, dall'altra, la vera potenza di Dio, cioè la gratuità dell'amore: proprio questa totale gratuità dell'amore è la vera sapienza»[12].
Può bastare per guardare in una luce più corretta il Mistero della Croce e capire perché i santi sono stati tutti irresistibilmente attirati da Colui che ha promesso: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me!» (Gv 12, 32). Ma per poterci attirare, il Signore ha bisogno che gli consentiamo di avvicinarsi a noi: la calamita del suo cuore trafitto deve giungere alla distanza giusta che gli consenta di far presa sul nostro cuore inquieto. E per questo occorre che noi ci volgiamo a Lui, che il nostro sguardo si posi sulle sue piaghe e le legga correttamente quale espressione suprema del Dio-Amore: «Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto» (Gv 19,37). Il tempo della preghiera davanti al Crocefisso, se colto nella giusta luce, può divenire anche per noi - com’è stato per Francesco - il tempo in cui la calamita possente del Suo cuore trafitto riesce a raggiungere la fragile realtà del nostro cuore (sempre assetato di un amore vero, ossia disinteressato e incondizionato: agapico) e lo attiri a sé. Ed è lo Spirito la calamita che suscita e può far crescere anche in noi l’innamoramento che hanno vissuto i santi.
Storicamente la contemplazione del Signore Crocefisso ha sempre giocato un ruolo di primissimo rilievo in chi ha praticato la preghiera contemplativa. Tra i francescani poi, sull’onda lunga di Francesco, di Antonio e di Bonaventura, il Cuore trafitto del Salvatore non ha mai cessato di infiammare i cuori dei santi e suscitare in essi una commossa gratitudine, facendo appunto della loro “orazione mentale” una forte esperienza di “orazione cordiale”[13].
2. Dalla Bibbia alla vita: la storia personale come storia di salvezza
Come abbiamo detto, per approdare umilmente alla pratica dell’Orazione mentale sono necessari alcuni percorsi che consentano l’incontro con il volto vero del vero Dio e non le contraffazioni che di solito noi elaboriamo a partire dalla nostra umana esperienza. E uno di questi percorsi è quello di imparare a leggere, sotto la guida dello Spirito, la nostra vicenda personale in termini di “storia della salvezza” [14] , operando quel salto enorme che ci fa passare dalla religione alla fede. La religione è il rapporto che nasce dall’uomo e si protende alla ricerca di Dio per tirarlo dalla propria parte. E’ questa la struttura di fondo di ogni esperienza religiosa che per istinto viene elaborata dal nostro cuore: mi lego all’Assoluto con una serie di riti e sacrifici nella speranza che mi diventi favorevole.
La fede è invece aprirsi all’iniziativa salvifica di Dio che in Cristo ci è venuto incontro, ci ha amati per primo e ci ha rivelato la possibilità di entrare con Lui in una relazione di amore, una relazione che abbandona i gesti e i modi di sentire dello schiavo per entrare nella libertà dei figli amati nel Figlio amatissimo. Aprirsi a questa esperienza di fede è possibile nella misura in cui la frequentazione assidua della Sacra Scrittura ci rende familiare il modo di agire di Dio con il suo popolo e con i singoli suoi membri, e ci insegna così a leggere la nostra vicenda personale alla luce della Parola di Dio. E’ quanto cercheremo di vedere brevemente nelle pagine che seguono.
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Il cammino che ci conduce ad una fede matura è quello che ci deposita lentamente nel cuore la certezza di una presenza fedele di Dio nella nostra vita, e che tale presenza fedele abbraccia ogni giorno della nostra esistenza, perché “ogni giorno è fatto dal Signore”. In altre parole, la gratitudine intesa come memoria del cuore, è la prima componente dell’esperienza di fede:
“Quanto povera sia ancora la nostra esperienza religiosa ce lo dice il fatto che siamo poco esercitati a comprendere Dio partendo dalla nostra stessa vita, o la nostra vita prendendo le mosse dalla sua guida. Eppure, fa parte integrante della fede la convinzione - non solo teorica, ma profonda e ‘cordiale’- che Egli è stato, è e sarà presente in ogni istante della nostra vita” (R. Guardini).
Non è l’intelligenza da sola che apre alla fede, ma il fare memoria e depositare nel cuore gli interventi del Signore nella storia in generale e nella mia storia personale. Abbiamo bisogno di imparare a ri-cordare per poter ri-leggere da credenti il mistero della nostra esistenza.
La teologia spirituale conosce un concetto ricco ed efficace per aiutare questo nostro lavoro di “recupero” del nostro passato alla luce della Presenza misteriosa ma fedele e premurosa del nostro Dio: è il concetto di memoria biblica, come tipico modo di credere del pio israelita, il quale credeva ricordando e ricordava credendo: memoria che Mosé raccomanda ripetutamente di non perdere (“Ri-cordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto compiere in questi quarant’anni nel deserto”: Dt 8,2).
Infatti, perché credeva un israelita? Non certo perché la sua mente era capace di giungere a Dio attraverso complicati ragionamenti, ma perché... i suoi occhi avevano visto (Dt 11,3-7 e 29, 1-6)), perché i suoi padri gli avevano raccontato (Dt 32,7), perché nel deserto aveva sperimentato il fascino della vicinanza di Dio ed era stato messo alla prova (Dt 8,3)...
Come ho detto, tale memoria biblica suppone una certa famigliarità con la Parola di Dio per essere anche da noi praticata. E’ come se la Bibbia divenisse uno specchio nel quale il credente vede riflessa la sua vicenda esistenziale. In fondo, la storia d’Israele racconta ciò che Dio fa oggi nella vita di ogni credente, racconta il suo modo di comportarsi nei riguardi dell’uomo.
Di conseguenza, leggere la propria vita alla luce della Bibbia vuol dire scoprirne la verità, quello che la nostra vita può e deve essere secondo il progetto di Dio, che con noi agisce come un tempo ha agito con i nostri padri. In concreto significa cogliere gli eventi centrali e più significativi della vicenda del popolo d’Israele come parametri su cui misurare o chiavi di lettura con cui interpretare la nostra storia personale. E’ il concetto di categoria biblica. Categorie bibliche sono, ad esempio, la creazione, la tentazione, la caduta, la schiavitù in Egitto, il Mar Rosso, la liberazione, la chiamata, ecc.
Attraverso il concetto di categoria biblica, la Bibbia diventa il paradigma su cui impariamo a coniugare la nostra vita da veri discepoli del Signore e la Parola di Dio diviene la chiave che ci consente di interpretare correttamente la nostra storia.
Per questo abbiamo bisogno di rileggere spesso con gli occhi della fede la nostra vicenda personale per scorgervi i passi misteriosi ma reali di Dio, ciò che Egli ha fatto per venirci incontro, per farsi riconoscere e per manifestarci il suo amore. E’ così che ogni storia umana diventa anche storia di Dio, pensata e progettata da Lui, così come la storia d’Israele è Parola e manifestazione di Dio. E solo così ci è dato di passare dal Dio dei filosofi (un entità astratta e senza volto che vive nei suoi cieli immensi e chiuso nel suo silenzio impassibile) al Dio della rivelazione biblica, il Padre del Signore Gesù Cristo, di cui si possono scorgere e narrare le meraviglie d’amore nello snodarsi a volte tortuoso di vicende pur sempre sorrette dalla sua Provvidenza.
E diventa possibile, per questa via, fare esperienza reale - cioè anche emotivamente significativa, capace di coinvolgere il cuore - che l’azione e la presenza di Dio nella propria vita abbraccia tutto il vissuto, cominciando dagli inizi di esso, cosicché il mio semplice “esserci” diventa “essere così perché così sono stato pensato e impastato di amore da Dio”: “Sei tu che mi hai tessuto nel seno di mia madre”, Sal.139, 13; “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno”, Sal.71,6; “Le tue mani mi hanno fatto e plasmato”, Sal.119,73; “La tua bontà mi ha fatto crescere”, Sal.18, 36…
Educandomi a leggere così la mia vita fin dal suo inizio, preparo il terreno a cogliere la presenza fedele del Signore come realtà più forte di ogni sfida e delusione: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”, Sal.27,10 (ma possiamo adattare a noi il testo: mio marito, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli, la persona a me più cara... ed è lo stupendo messaggio che ci viene proposto dal Signore stesso in quel gioiello che troviamo in Ezechiele, 16, 1-14, una chiave preziosa per rileggere il nostro itinerario di crescita in termini di misericordia).
E cresce in me la certezza che anche per il futuro il Signore si manterrà fedele nel suo amore: “Sono stato fanciullo e ora sono vecchio, non ho mai visto il giusto mendicare il pane”, Sal.27,10; che mi renderà capace di affrontare i fatti della vita con fiducia ed ottimismo, sapendo che Dio è Padre e continuerà ad essermi Padre anche in mezzo alle avversità: “Il Signore è mia luce e mia salvezza, di chi avrò timore? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò paura?...se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme; se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”, Sal.27,3.
Crescere nella fede è fare memoria ogni giorno di questa “paternità-maternità” di Dio, e affrontare la vita con la sicurezza che viene da questa memoria, predisponendo il mio cuore ad agire da figlio in ogni circostanza. Tale esperienza dell’amore divino diviene così matrice di ogni esperienza ed azione: infatti, l’incontro esperienziale con la paternità-maternità di Dio e l’atto di fede sono veri e profondi quando diventano matrice di ogni esperienza successiva di vita.
E’ questa fede autentica che ci rende possibile riconoscere e assumere il positivo e il negativo presenti anche nella nostra vita, che come quella di ogni uomo è impasto di luce e di ombra.
C’è anzitutto un positivo da riconoscere ed integrare: è tutto quello che di bene la vita ci ha dato
fin dal primo giorno della nostra esistenza, ed è veramente tanto. Proprio facendolo affiorare alla coscienza durante la preghiera silenziosa possiamo educarci a leggerlo con riconoscenza e collegarlo con la presenza fedele del Signore nella nostra vita. E’ un allenamento che richiede una conversione del nostro sguardo, perché non siamo abituati ad assumere un atteggiamento di gratitudine commossa nei confronti della nostra storia. Non ci viene spontaneo riconoscere di essere stati amati ben al di sopra di quanto avremmo meritato, né sappiamo interpretare tali atti di bontà nei nostri confronti come provvidenziale mediazione umana dell’amore di Dio. Eppure, come ci ricorda Lewis, “non abbiamo diritto di aspettarci di essere amati dai nostri famigliari, ma possiamo coltivare solo una ragionevole aspettativa, sempre che noi e loro siamo più o meno persone normali” [15].
Tale ingratitudine è figlia di quel narcisismo oggi diffuso che predispone un po’ tutti a porre in rilievo più ciò che si ritiene di non aver ricevuto che non a coltivare riconoscenza per quanto ci è stato donato. Sì, dobbiamo rieducare il nostro modo di ricordare, per non cadere in quel frequente fenomeno incisivamente espresso dal proverbio: Gli uomini, se ricevono il male, lo scrivono sul marmo; se ricevono il bene, lo scrivono sulla polvere. Mentre è proprio dalla certezza di aver già ricevuto tanto amore che noi possiamo trarre i mattoni per costruire la nostra maturità affettiva: nulla infatti è così esigente e responsabilizzante della certezza di essere già stati molto amati.
Ma c’è anche un negativo nella vita di ognuno che chiede di essere integrato, ossia riconosciuto a tutti gli effetti come parte integrante della propria identità e recuperato come luogo e occasione di una peculiare esperienza di Dio, ed anche tale recupero è favorito dall’orazione mentale, ove nel silenzio sentiremo affiorare il dolore delle ferite ancora aperte…
A tal fine le tappe possono essere queste:
- Riconoscere e chiamare per nome il male nella sua valenza di peccato, provandone sincero dispiacere in quanto non corrispondenza ad un Amore che ogni giorno mi si rivela attraverso la Parola e tante altre mediazioni.
- Riconciliarmi con la mia profonda debolezza personale, riconoscendomi e accettandomi anch’io come un essere da sempre impastato di perdono: se la misericordia è l’amore che va oltre la giustizia, tutti noi siamo stati creati da un atto di misericordia, fatti da mani misericordiose, pensati da una mente misericordiosa ed inseriti insieme in un immenso disegno di misericordia...
E se le cose stanno così, il perdono - da dare e da ricevere - diviene l’espressione tipica di chi si sente uomo riconciliato.
- Trasformare e trasfigurare il male morale: quando esso è sperimentato come perdonato, diviene occasione e luogo di crescita nel bene, se non altro perché libera la persona dalla tentazione di coltivare manie di grandezza (è l’esperienza di Paolo che ‘si vanta’ della sua debolezza dopo aver più volte chiesto al Signore di esserne liberato: 2Cor. 12,9).
E quando, sotto lo sguardo del Signore e rilette alla luce della sua Pasqua, le situazioni dolorose del passato sono rivisitate tenendo conto di ciò che in seguito è poi accaduto, anche a noi è dato di poter riconoscere il Signore, anche se solo “di spalle”, ossia negli effetti benefici che attraverso la sofferenza Egli ha deposto sulla nostra via[16]
In sostanza, si tratta di ricostruire il nostro passato per risanarlo da quelle componenti che possono continuare ad incidere negativamente sul presente. E per fare questo occorre liberarci dai pregiudizi che una certa visione psicologica ha diffuso a piene mani in tutti questi anni, pregiudizi secondo i quali il nostro passato condiziona in modo irreversibile il nostro cammino di oggi e di domani.
Occorre prendere atto invece - proprio in base a ciò che le stesse scienze umane oggi suggeriscono - che il passato dell’uomo, di ogni uomo, non può mai essere considerato come un destino, come qualcosa che ormai ha e deve avere un suo seguito fatale senza alcuna possibile alternativa.
Il nuovo principio-base è questo: l’uomo può non essere responsabile del suo passato, ma è responsabile in ogni caso dell’atteggiamento che al presente assume di fronte ad esso ed è libero di dargli un significato. Nessuno gli può togliere questa libertà-responsabilità, né lui stesso può sottrarsi al compito di imparare ad introdurre senso là dove sembra non ve ne sia stato.
“Di fronte a fatti incomprensibili la domanda da formulare non è: perché questo è accaduto?, ma:
quale atteggiamento assumere perché ciò che è accaduto acquisti senso? L’uomo infatti può modificare il valore delle situazioni storiche e può introdurre orientamenti nuovi negli stessi eventi della creazione. In fondo, è quello che ha fatto Gesù trasformando persino la sua morte, insensata e assurda, in un evento di salvezza universale: Dio era realmente assente, e fu solo l’amore incondizionato di Gesù a renderlo ancora presente nel luogo della desolazione e della morte. In questo modo Egli ha introdotto senso e valore dove non ne esisteva, ha reso presente Dio dove gli uomini l’avevano reso assente”[17].
La fede - come ricordava il Manzoni riguardo alla Monaca di Monza - quando è autentica, consente alla persona di conferire senso a tutto il proprio vissuto, compreso il suo carico di contraddizioni e di eventuali disgrazie. E ciò avviene mediante la lettura della Parola, sempre ripresa per scoprirvi la luce di un amore misericordioso che ci è continuamente offerto non perché ne facciamo un uso personale consumistico, ma perché divenga la chiave interpretativa della nostra storia, sulla quale il perdono continui a fluire: dal Signore verso di noi, e da noi verso chi pensiamo ci sia debitore...
Il TESTAMENTO DI SAN FRANCESCO è un limpido esempio dell’atteggiamento tipico dell’uomo biblico. In esso, il Santo “fa memoria” della propria storia salvifica, ed il ricordare diviene benedizione e consegna del vissuto ai fratelli. Quando egli si volge indietro per rileggere quanto ha vissuto, ogni momento importante gli appare un dono di Dio: “Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza... E il Signore mi dette tale fede nei sacerdoti... E dopo che il Signore mi dette dei fratelli...” (FF 110-111).
E’ quello che dobbiamo imparare a fare anche noi per divenire, come Francesco, persone eucaristiche: sempre più capaci cioè di vedere il bene che la misericordia del Signore ha già seminato nei solchi della nostra vita e impegnati a restituirlo gioiosamente a Colui che è la Fonte di ogni bene, nella lode e nel servizio ai fratelli[18].
Possiamo provare a fare nostro l’atteggiamento interiore espresso da queste parole:
Sotto il tuo sguardo e alla luce della tua presenza amica
che vado scoprendo, o Signore, in modo sempre più chiaro e profondo,
posso ripercorrere le tappe principali del mio cammino di crescita,
anche le più difficili e dolorose,
soffermandomi con gratitudine sulle persone e sui fatti
attraverso cui tu hai seminato già tanto bene nei solchi della mia vita,
per scoprirvi ancora meglio i tuoi interventi discreti e delicati,
segni del tuo amore gratuito e fedele
che ha orientato via via i miei passi verso di te,
fino a condurmi qui, nella situazione concreta in cui mi trovo
ove mi chiedi di continuare il mio cammino di crescita umana e spirituale.
Con la forza del tuo Spirito, è qui, con questi miei fratelli/sorelle,
che tu renderai più forte la mia fede, cosicché io divenga sempre più capace
di consegnarmi fiducioso nelle tue mani,
che ormai per esperienza so che sono mani affidabili…
3. La “preghiera del nome” o “ preghiera del cuore”
Ci resta da vedere quel tipo di preghiera che può rivelarsi preziosa usandola anche per buona parte del nostro “tempo di orazione mentale”. Essa ha nomi diversi: preghiera del cuore - preghiera del Nome - preghiera di Gesù - preghiera esicastica (dal greco esikìa = silenzio, quiete, semplicità).
E’ un modo di pregare che consente di raccogliere le energie dell’anima intorno ad un’idea semplicissima (perché è incentrata tutta sul Signore Gesù), ma completa (perché lo vede in tutte le sue caratteristiche fondamentali, e ci rapporta a lui nel solo modo corretto: come mendicanti di misericordia). La si può considerare una sintesi di tutto il Vangelo.
Sorta anticamente tra i monaci del Medioriente e coltivata successivamente dalla tradizione ortodossa russa[19], da qualche decennio è divenuta famigliare anche in occidente. Il catechismo della chiesa cattolica vi dedica 4 paragrafi (2665-2668), che meritano di essere letti per intero.
E’ una preghiera che si fonda sulle esortazioni apostoliche: “pregate continuamente” (1Tess. 5,17); “pregate incessantemente con ogni sorta di preghiera e di suppliche nello Spirito” (Ef. 6,18); ma anche sulla parola di Gesù stesso, che in diverse parabole fa riferimento alla “necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (Lc. 18,1) ed invita i discepoli a “vegliare e pregare in ogni momento” (Lc. 21,36). Nella tradizione spirituale cristiana ci si è sempre domandati con una ricerca sovente faticosa come mettere in pratica questa esortazione sia di Gesù che dell’Apostolo sulla preghiera senza interruzione. E i padri del deserto hanno privilegiato una formula che noi troviamo testimoniata nei Vangeli, un grido innalzato a Gesù da parte di malati e peccatori. E' questo grido che è diventato la preghiera di Gesù. Consiste nel ripetere incessantemente l’invocazione “Signore Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me peccatore!”: un’invocazione che cuce insieme il grido del cieco di Gerico che implora la guarigione ( “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me” in Mc. 10, 47), e la preghiera del pubblicano al tempio (“o Dio, abbi pietà di me, il peccatore” di Lc. 18,13)[20].
Perché è preziosa questa preghiera? La nostra mente tende a vagare continuamente; e per un istinto che è ormai segnato dal peccato, si orienta di preferenza verso il male più che verso il bene: risentimenti e animosità contro qualcuno, desideri vaghi e pensieri impuri, rimpianti o rimorsi per fatti che affondano nel passato, timori o sogni irrealistici riguardo al futuro (l’essere con la mente altrove da dove si è, vuol dire non accogliere la grazia che il Signore ci dona “qui e ora”, ed è la causa più frequente della dispersione e dell’interiore affaticamento). Dalla mente, tutto poi passa al cuore, e come dice Gesù, “nel cuore maturano le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, adulteri, cupidigie, malvagità, invidia, calunnia...” (Mc. 7,21-22). Va ricordato che gli “atteggiamenti” coltivati dentro di noi premono per trasformarsi in “comportamenti”, cioè in azioni concrete, buone o cattive...
Il “raccoglimento della mente nel cuore” è il momento cruciale in cui avviene l’unificazione sotto l’azione dello Spirito santo, unificazione di tutto l’essere umano in se stesso e apertura alla comunione con Dio. Questo è il fuoco segreto, la scintilla che si accende per grazia, dopo una lunga consuetudine alla preghiera. Il Signore, vedendo il nostro desiderio e il nostro sforzo di pregare, ci dà il suo aiuto: a chi prega con semplicità, Egli accorda il dono della preghiera del cuore.
Certo, la preghiera liturgica ha, e deve avere, il primato perché la liturgia resta culmine di tutta l’azione della Chiesa e fonte di tutta la sua forza. Ma la preghiera liturgica trova il suo prolungamento nel tempo della vita quotidiana, nell’intimo del cuore del cristiano, e tenta di diventare incessante: quando mangiamo, quando lavoriamo, quando riposiamo...
La preghiera del Nome rappresenta l’umile tentativo di radicare e conservare viva in noi la Jesu dulcis memoria. E tra i suoi benefici vi è questo: la conoscenza di sé a cui essa conduce non rivela in noi né il gigante dei nostri sogni né il nano delle nostre paure, ma ci fa prendere coscienza della nostra oggettiva e realistica condizione di peccatori bisognosi della misericordia del Signore, di cui siamo sempre nuovamente ricolmati. Invocarlo come “Signore” significa infatti riconoscergli questa signoria su di noi, significa riconoscere che noi siamo creature plasmate ad immagine del Figlio: è quella immagine che deve regnare su di noi, sui nostri pensieri, sulle nostre azioni, sui nostri sentimenti, sul nostro inconscio, fino alle nostre profondità non evangelizzate.
La nostra mente - diceva Don G. Dossetti a Monteveglio alla fine degli anni ‘80 - è come una damigiana: se la lasciamo vuota e aperta, vi entra di tutto. Possiamo però riempirla di buon vino con la Preghiera del Nome. Un’invocazione breve, che se ripetuta più e più volte finisce per stamparsi nel nostro cuore ed affiorare ogni volta che la mente non è direttamente impegnata in qualcosa di preciso. Come il tessuto connettivale, va a riempire tutti gli spazi vuoti e li sottrae al male, tenendo viva in noi la memoria del Signore. Il cristiano che si sofferma sulle parole della preghiera di Gesù, cercando di concentrarsi sulla loro verità profonda, “racchiudendovi la mente”, scoprirà uno strumento potente per crescere nella fede, nella speranza e nella carità; ma anche una via che consente di entrare sempre più e rimanere nel silenzio contemplativo.
Il Rosario può ritenersi in certo senso la versione occidentale della Preghiera del Nome, la cui forma più semplice e più facilmente fruibile può essere questa:
Signore Gesù Salvatore / pietà di me peccatore!
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CAPITOLO II
L’ORAZIONE MENTALE NELLA TRADIZIONE FRANCESCANA
Alcuni testi fondativi
1. La parola e l’esempio di san Francesco
a. Dalla Regola non bollata XXII e XXIII (FF 60-61 e 69-71)
[FF 60] Tutti noi frati, stiamo bene in guardia, perché, sotto pretesto di ricompensa, di opera da fare e di un aiuto, non ci avvenga di perdere o di distogliere la nostra mente e il cuore dal Signore. Ma, nella santa carità che è Dio, prego tutti i frati, sia i ministri che gli altri, che, allontanato ogni impedimento e messa da parte ogni preoccupazione e ogni affanno, in qualunque modo meglio possono, si impegnino a servire, amare, adorare e onorare il Signore Iddio, con cuore puro e con mente pura, ciò che egli stesso domanda sopra tutte le cose.
[FF 61] E sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, e che dice: “Vigilate dunque e pregate in ogni tempo, affinché possiate sfuggire tutti i mali che accadranno e stare davanti al Figlio dell'uomo”.
[FF 69] Tutti amiamo con tutto il cuore e con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutta la capacità e la fortezza, con tutta l’intelligenza, con tutte le forze, con tutto lo slancio, tutto l’affetto, tutti i sentimenti più profondi, tutti i desideri e la volontà… il Signore Iddio, il quale a tutti noi ha dato e dà tutto il corpo, tutta l'anima e tutta la vita; che ci ha creati, redenti, e ci salverà per sua sola misericordia; Lui che ogni bene fece e fa a noi miserevoli e miseri, ingrati e cattivi.
[FF 70] Nient’altro dunque dobbiamo desiderare, niente altro volere, nient’altro ci piaccia e diletti, se non il Creatore e Redentore e Salvatore nostro, solo vero Dio, il quale è il bene pieno, ogni bene, tutto il bene, vero e sommo bene, che solo è buono, pio, mite, soave e dolce; che solo è santo, giusto, vero, santo e retto; che solo è benigno, innocente, puro; dal quale e per il quale e nel quale è ogni perdono, ogni grazia, ogni gloria di tutti i penitenti e giusti, di tutti i santi che godono insieme nei cieli.
[FF 71] Niente dunque ci ostacoli, niente ci separi, niente si frapponga. E ovunque, noi tutti, in ogni luogo, in ogni ora e in ogni tempo, ogni giorno e ininterrottamente crediamo veramente e umilmente e teniamo nel cuore e amiamo, onoriamo, adoriamo, serviamo, lodiamo e benediciamo, glorifichiamo ed esaltiamo, magnifichiamo e rendiamo grazie all'altissimo e sommo eterno Dio, Trinità e Unità, Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose e Salvatore di tutti coloro che credono e sperano in lui, e amano lui che è senza inizio e senza fine, immutabile, invisibile, inenarrabile, ineffabile, incomprensibile, ininvestigabile, benedetto, degno di lode, glorioso, sopraesaltato, sublime, eccelso, soave, amabile, dilettevole e tutto sopra tutte le cose desiderabile nei secoli dei secoli. Amen.
b. Dalla Regola bollata V e X (FF 88 e 104)
[FF 88] Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporali.
[FF 104] E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, di pregarlo sempre con cuore puro.
c. Dalla Seconda Lettera ai Fedeli (FF 200-202)
[FF 200] E tutti quelli e quelle che si comporteranno in questo modo… riposerà su di essi lo Spirito del Signore, ed egli ne farà sua abitazione e dimora. E saranno figli del Padre celeste, di cui fanno le opere, e sono sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo. Siamo sposi, quando l'anima fedele si congiunge a Gesù Cristo per l'azione dello Spirito Santo. E siamo fratelli, quando facciamo la volontà del Padre suo, che è in cielo. Siamo madri, quando lo portiamo nel nostro cuore e nel nostro corpo attraverso l'amore e la pura e sincera coscienza, e lo generiamo attraverso il santo operare, che deve risplendere in esempio per gli altri.
[FF 201] Oh, come è glorioso e santo e grande avere in cielo un Padre! Oh, come è santo, consolante, bello e ammirabile avere un tale Sposo! Oh, come è santo, come è delizioso, piacevole, umile, pacifico, dolce e amabile e sopra ogni cosa desiderabile avere un tale fratello e figlio, il quale offrì la sua vita per le sue pecore e pregò il Padre per noi…
[FF 202] A colui che tanto patì per noi, che tanti beni ha elargito e ci elargirà in futuro, a Dio, ogni creatura che vive nei cieli, sulla terra, nel mare e negli abissi, renda lode, gloria, onore e benedizione, poiché egli è la nostra virtù e la nostra fortezza. Egli che solo è buono, solo altissimo, solo onnipotente, ammirabile, glorioso e solo è santo, degno di lode e benedetto per gli infiniti secoli dei secoli. Amen.
d. Dalle Biografie
• Dalla Vita Prima (115) e dalla Vita Seconda (94-95) di Tommaso da Celano
[FF 522] I frati che vissero con lui sanno molto bene come ogni giorno, anzi ogni momento affiorasse sulle sue labbra il ricordo di Cristo; con quanta soavità e dolcezza gli parlava, con quale tenero amore discorreva con Lui. La bocca parlava per l'abbondanza dei santi affetti del cuore, e quella sorgente di illuminato amore che lo riempiva dentro, traboccava anche di fuori. Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra… Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, perciò fu insignito gloriosamente più di ogni altro della immagine di Lui…
[FF 681-682] Francesco, uomo di Dio… cercava sempre un luogo appartato, dove potersi unire non solo con lo spirito, ma con le singole membra, al suo Dio. E se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una piccola col mantello.
Quando… pregava nelle selve e in luoghi solitari, riempiva i boschi di gemiti, bagnava la terra di lacrime, si batteva con la mano il petto; e lì, quasi approfittando di un luogo più intimo e riservato, dialogava spesso ad alta voce col suo Signore: rendeva conto al Giudice, supplicava il Padre, parlava all’Amico, scherzava amabilmente con lo Sposo. E in realtà… considerava sotto diversi aspetti Colui che è sommamente Uno… Non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente.
• Dalla Leggenda dei Tre Compagni, 7
[FF 1402] D’improvviso il Signore lo visitò e n’ebbe il cuore riboccante di tanta dolcezza che non poteva muoversi né parlare, non percependo se non quella soavità. E da quell’ora smise di adorare se stesso e persero via via di fascino le cose che prima amava. Il mutamento però non era totale, perché il suo cuore restava ancora attaccato alle suggestioni mondane. Ma svincolandosi man mano dalla superficialità, si appassionava a custodire Cristo nell’intimo del cuore; e nascondendo allo sguardo degli illusi la perla evangelica che intendeva acquistare a prezzo di ogni suo avere, spesso e quasi ogni giorno s’immergeva segretamente nell’orazione. Vi si sentiva attirato dall’irrompere di quella misteriosa dolcezza che, penetrandogli sovente nell’anima, lo sospingeva alla preghiera perfino quando stava in piazza o in altri luoghi pubblici.
• Dalla Leggenda Maggiore di san Bonaventura, X
[FF 1176] Francesco… si sforzava, pregando senza interruzione, di mantenere lo spirito alla presenza di Dio, per non rimanere privo delle consolazioni del Diletto. La preghiera era la sua consolazione quando si dava alla contemplazione, e quasi fosse ormai un cittadino del cielo e un concittadino degli Angeli, con desiderio ardente ricercava il Diletto, da cui lo separa soltanto il muro del corpo… Sopra ogni altra cosa - asseriva con fermezza - il religioso deve desiderare la grazia dell’orazione, e incitava in tutte le maniere possibili i suoi frati a praticarla con zelo, convinto che nessuno fa progressi nel servizio di Dio senza di essa…
[FF 1180] Quando, trovandosi in pubblico, veniva improvvisamente visitato dal Signore, cercava sempre di celarsi in qualche modo ai presenti, perché gli intimi contatti con lo Sposo non si propalassero all’esterno… Spesso ai suoi confidenti diceva cose come queste: “Quando il servo di Dio, durante la preghiera, riceve la visita del Signore, deve dire: ‘O Signore, tu dal cielo hai mandato a me, peccatore e indegno, questa consolazione, e io la affido alla tua custodia, perché mi sento un ladro del tuo tesoro’. E quando torna dall’orazione, deve mostrarsi così poverello e peccatore, come se non avesse ricevuto nessuna grazia speciale”.
[FF 1181] Quando tornava dalle sue preghiere, che lo trasformavano quasi in un altro uomo, metteva la più grande attenzione per comportarsi in uniformità con gli altri, perché non avvenisse che il vento dell’applauso, a causa di quanto lui lasciava trapelare di fuori, lo privasse della ricompensa interiore.
• Dai Ricordi di Frate Leone
[FF 2693] Raccontava frate Pietro questo fatto che gli aveva confidato frate Leone, compagno di san Francesco: Quand’ero sacerdote novello, ero solito protrarre in lungo la celebrazione della Messa: provavo le divine consolazioni e perciò mi era dolce fermarmi. Un giorno il beato Francesco mi chiamò e, parlandomi amorevolmente, mi disse: “Figlio mio, frate Leone, fai come ti dico io. Celebra la tua Messa con devozione sì, ma senza fermarti troppo durante la celebrazione, conformandoti agli altri sacerdoti. Se poi il Signore ti dona qualche sua grazia, finita la Messa, raccogliti nella cella e lì medita e goditi le divine consolazioni, se ciò ti è concesso dal cielo. Penso che questo comportamento sia migliore e più sicuro. Infatti, a motivo di coloro che assistono alla Messa, facilmente potrebbe sopravvenirti qualche pensiero di gloria vana o altro sentimento fuori posto, e il diavolo ti rapirebbe subito il merito di quella apparente devozione. Ma nella cella, dove nessuno ti vede, con più sicurezza potrai abbandonarti alla preghiera, e il diavolo non troverebbe facilmente occasione per tentarti. Potrebbe anche capitare che qualcuno di coloro che assistono a una Messa troppo lunga, si lasci trasportare a qualche giudizio maligno, magari a pensare che quel sacerdote, che celebra con tanta devozione, lo faccia per mettersi in mostra, oppure si lasci prendere dalla noia, ecc…”.
2. L’Orazione mentale tra i Cappuccini
Il primato della vita d’orazione, specialmente contemplativa, ha rappresentato un valore tipico della spiritualità francescana ed è stato riaffermato con forza da tutte le Riforme. Un recupero particolarmente vigoroso è stato operato dai primi Cappuccini, fino a condizionare alcune scelte di vita, anche a livello esistenziale. Gli Statuti di Albacina (1529) sono denominati «delli frati minori detti della vita eremitica» e sono l’espressione autentica, anche se non completa, dello spirito della prima fase della riforma. La scelta di una vita eremitica era in funzione di un maggior spazio da riservare alla contemplazione, con ore e ore di preghiera e in forme di solitudine che favorivano il raccoglimento.
L’espressione vita eremitica compare già nel breve Ex parte vestra (18 maggio 1526) e poi nella bolla Religionis zelus (luglio 1528, n. 2). La tendenza eremitica, non pienamente rispondente all’ideale di san Francesco, venne corretta con le Costituzioni del 1536, nelle quali si raggiunse un mirabile equilibrio tra vita contemplativa e via apostolica. Un numero notevole di scrittori Cappuccini ha cercato di diffondere l’uso dell’orazione mentale affettiva anche tra il popolo semplice.
2.a. Le Costituzioni dei Frati Minori Cappuccini (1536)
[n. 41] E perché l'orazione è la maestra spirituale dei frati, acciocché lo spirito della devozione non s’intiepidisca nei frati, ma al contrario, ardendo continuamente sull’altare del cuore, si accenda sempre più, così come desiderava il serafico Padre; e quantunque il vero devoto frate minore preghi sempre, si ordina tuttavia che siano destinate alla preghiera per i meno fervorosi due ore particolari, una dopo la Compieta e l'altra dopo Mattutino.
[n. 42] E si ricordino i frati che pregare non è altro che un parlare a Dio col cuore. Pertanto non prega chi parla a Dio solo con la bocca. Si sforzerà, quindi, ciascuno di fare orazione mentale e, secondo la dottrina di Cristo ottimo Maestro, di adorare l’eterno Padre in spirito e verità, curando diligentemente di illuminare la mente e di infiammare l’affetto, più che di formar parole. Prima della preghiera si dicano le Litanie, invocando tutti i Santi a voler pregare Dio con noi e per noi. Non si aggiunga altro Ufficio in coro tranne quello della Madonna, affinché i frati abbiano più tempo da dedicare alla preghiera segreta e mentale, assai più fruttuosa di quella vocale.
2.b. La voce degli scrittori spirituali
La fuga e l’adesione al calvinismo del superiore generale Bernardino Ochino nel 1542 vennero spiegate dai cronisti con l’abbandono della vita di preghiera a causa di un’eccessiva attività. Paolo Vitelleschi riferisce un emblematico dialogo tra il vicario Bernardino d’Asti e Bernardino Ochino. Il primo rimprovera al secondo di essere «ingolfato in questi impicci per li secolari e per li studi et non vi vediamo mai a fare orazione»; l’Ochino risponde che «non cessa di pregare chi non cessa di fare bene», e il d’Asti di ritorno: «ma non seguiterà a fare bene chi cessa di pregare»[21].
Gli scrittori spirituali Cappuccini del primo secolo che hanno praticato e diffuso l’orazione mentale tra il popolo sono tanti e di qualità. Basterà riferire qui alcuni nomi ed offrire poi un paio di citazioni che ci consentano di comprendere le modalità e i contenuti della loro vigorosa esperienza contemplativa. Tra i numerosi scrittori spirituali della prima e della seconda generazione, meritano di essere ricordati Bernardino d’Asti (1484-1557), Francesco Tittelmans (1502-1537), Francesco Ripanti da Jesi (1470-1549), Giovanni Pili da Fano (1469-1539), Battistone da Faenza (1496-1562), Bernardino da Montolmo (1492-1565), Bernardino da Balvano (1500-1568), Gregorio da Napoli (1576-1601), Mattia Bellintani da Salò (1534-1611), Cristoforo da Verucchio (1545-1630), il beato Tommaso da Olera (1563-1631), Francesco Gagnand di Chambéry (+1634).
L’anonimo cappuccino autore di un opuscolo stampato nel 1640, che si nasconde sotto il nome del frate conventuale savoiardo Bonito Combasson, ci mostra il modo con cui si faceva orazione mentale:
[1155] «Il tranquillo tenacissimo cardine dei Cappuccini, nel seno e protezione del quale riposa il sereno della beata pace, è la frequente orazione, alla quale questi serafici minoriti si dedicano quasi senza interruzione, giorno e notte; ma particolarmente, secondo le loro costituzioni, si esercitano ogni giorno senza eccezione all’orazione mentale per due ore intere in comune, una prestissimo al mattino, ancora buio d’inverno e al sorgere del sole d’estate, l’altra di sera, dopo compieta, per tutto l’anno, stando tutti insieme congregati in coro, a finestre e porte chiuse, in una semioscurità che favorisce il raccoglimento… Questa orazione comunitaria, prescritta per tutti insieme e dalla quale nessuno può assentarsi senza licenza del superiore… non ho sentito né letto che sia mai stata usata da altri Ordini religiosi… Essa è la guida del nostro cammino, la compagna della nostra vita. Dà vigore e forza a compiere ogni lavoro, è la madre e nutrice di ogni vera vita religiosa…»[22].
Mattia Bellintani da Salò, nella sua Pratica dell’orazione mentale ci dice che cosa si intende per “preghiera affettiva”. Essa si sviluppa nell’anima meditando, poiché meditare è come mettere legna al fuoco dell’amore per ravvivarlo; e quando il fuoco è acceso, occorre rimanere in esso: questa è la dimensione affettiva della preghiera, che egli chiama “attività del cuore”. Sentiamo come ne parla[23]:
[4348] Impégnati dunque, carissimo, nelle sante meditazioni… La meditazione serve per legna da accendere il fuogo affettuoso della volontà, perché, meditando noi qualche misterio sacro, sempre vi ritrovamo dentro qualche efficace motivo che ne sprona e muove a fare qualche atto virtuoso con l’affetto, come sarebbe di temere, desiderare, amare, rallegrarsi, ringraziare, sperare, dolersi, imitare, compatire, o simili. E questo è l’intento principale per il quale si fa la meditazione.
[4351] Si ha da sapere che l’essercizio degli affetti si deve fare con vigore e fervore e accendere quelli quanto più si può. Si accendono gli affetti ponderando bene il mistero che li produce; ma l’amore ha un modo particolare oltre a questo comune, perché, eccitato che sia l’animo all'amore dalla meditazione, può, lasciando quella, inalzarsi a Dio, mirandolo e sospirando al suo amore, e può fare tre cose: una è amarlo con dire: “Signore, voglio te solo, mi contento di te”, e simili parole del cuore; l’altra è desiderare di amarlo, con dire: “Signore, quando ti amarò perfettamente? Quando per amore sarò io tutto tuo?”. La terza è pregare che ti dia l’amore. E queste si possono fare una sotto l’altra, come lo Spirito si sente, e questo è un utilissimo essercizio che infiamma all’amore, nel quale si deve stare quanto più si può da tutte le sorte degli oranti, così incipienti come perfetti, perché a tutti molto giova.
[4352] Ancora, si ha da sapere che tutti i frutti affettivi che si cavano dalla meditazione o, senza quella, sono donati all’anima essercitata, si riducono a due capi, e uno si chiama intratto, cioè tirar dentro, e l’altro estratto, cioè tirar fuori.
Lo intratto è quando l’anima è tirata in Dio per impeto di amore e sta fissa mirandolo con gran diletto, e tiene fermi gli occhi suoi in quelli di Dio, da cui si vede parimente vista e vagheggiata, e così parlano insieme in seconda persona, o pur solo in silenzio si stanno mirando e l’anima si va sentendo saettata dentro il cuore di ferite mortali d’amore che la fanno languire, si come lei con il suo puro sguardo saetta il cuore d’Iddio, il quale in questo niuna ne le perdona, ma quanto è ferito, tanto e più ferisce lei.
Lo estratto è quando l’anima si sente accesa d’un gran desiderio di servire e piacere a Dio e stimola se medesima a servirlo e compiacerlo, e a questo desiderio ne sogliono, nelli imperfetti ancora in questa arte (che ancora sono involti nelle imperfezioni e nelle passioni proprie) seguire atti di dolore, di proponimento, di pregare addimandando la liberazione dai propri mali, come sta nelle prattiche nostre. Ma li perfetti stanno più alto nel predetto desiderio, se bene alcuna volta vi aggiungono il pregare Iddio che gli dia forza e grazia di servirlo perfettamente.
[4353] Nell’intratto adunque l’anima ha solamente Iddio per oggetto. Nell’estratto ella si converte sopra se stessa dandosi di acute spronate per correre a Dio. Questi due atti si vanno facendo ora l’uno e ora l’altro così alternatamente, perché l'anima, amando Dio, si accende al desiderio di servirlo e questo desiderio la caccia dentro di nuovo e la infiamma ad amare. Il più perfetto di questi due atti è l’intratto, come fine dell’estratto, ed è quello che in patria beatifica i santi e ora in terra felicita l’anima divota. Per(ci)ò debbiamo sempre aspirare a quello, ma non però importunamente ingerirsi, perché è chiamato intratto, cioè tiramento interno, con il quale Iddio a sé ne tira. Lasciamoci adunque tirare e non ci ingeriamo; dobbiamo bene però stare molto attenti di correre dietro al tiramento divino e non dargli fatica. E perché è più nobile, ordinariamente dura poco e la orazione sempre finisce con lo estratto, massime con il supplicare addimandando aiuto.
Tommaso da Olera, proclamato beato il 21 settembre 2013, nel suo Fuoco d’amore ci offre il contenuto dell’orazione mentale intesa come orazione affettiva. Pur essendo stato coinvolto nelle vicende politiche ed ecclesiastiche del suo tempo[24], ha praticato e diffuso una vera e propria “orazione cordiale”, ossia un’orazione che sgorga da un cuore ricolmo di amore serafico. Il suo lessico, pur debitore dello stile del tempo, è in profonda sintonia con quello di san Francesco.
[5297] Parlo a te, che brami d’ascendere a perfettione; perché se vorrai ascendere a questa scala di perfettione, ti devi molto affaticare nell’oratione mentale; perché per mezzo d’essa arriverai alla sommità della scala, ove troverai la vera requie, anzi troverai l’istesso Dio, autore d’ogni requie e d’ogni perfettione. E non pensi già mai di poter salir tanto alto senza la santa orazione. E quando vorrai fare questa santa orazione, devi cercar luoghi solitari e remoti, e non ti devi mettere li divini misteri (su cui mediterai) come cosa lontana. Voglio dire che non ti devi pensar che sia 1600 anni che Cristo patì per tuo amore, ma ti devi metter in orazione come se allora fusti presente…
[5315] Questa contemplazione non è per via dell’intelletto, ma l’è per via dell’affetto, perché in tutte le cose si lascia guidare dall’affetto; e questi saranno quelli che faranno gran profitto nella contemplazione, perché l’affetto amoroso che ha l’anima verso Dio è un fedel guardiano il quale tien l’anima umile e divota. Quell’affetto amoroso è come l’ale dell'uccello, il quale vola ne’ monti, colli, alberi, aria etc. Così l’affecto amoroso verso Dio è appunto come l’ale, perché vola nelli divini misteri pascolando or in uno, or in un altro modo; e che cosa gusti l’anima amante io dirò che non è lecito parlarne con uomini mortali, perché è un tocco di Dio così soave, così felice, che solo l’anima e Dio lo può saper…
[5316] Si ritrovano quest’anime così ben preparate che hanno desideri così efficaci, che del continuo ardono di voglia d’operar per Dio cose grandi, e dove non ponno arrivar con l’opere, v’arrivano con gl’infuocati desideri di patir cose grandi per amor di Dio. Vorriano poter amar Dio in quel modo che è amato dalli santi in cielo; e non finiscono qui i desideri d’un vero contemplativo, ma forma con la sua idea mille amori, perché ascende sopra la sua capacità, vorria amar Dio in ogni beato; voglio dire che in ognuno di quelli beati spiriti vorrebbe l’anima far in servizio di Dio, lei sola, quello che fanno tutti li santi, e con ardenti desideri s’abbassa, s’umilia a tutti quei beati spiriti, acciò vogliano lodar, amar, adorar il suo Dio ad instanza sua; e non contenta di ciò, vorrebbe l’anima, se lo potesse, dar sentimento ragionevole al sole, alla luna, alle stelle, a animali e a tutte le creature, acciò amassero e servissero a quel Dio che essa ama e serve. E non potendo far questo, offerisce al suo Dio la sua volontà e desiderio; e non contento di ciò, vorrebbe che tutte le creature, uomini e donne, ricchi e poveri etc. amassero il suo Dio. Oh, quante volte è levata l’anima in contemplazione che arde a punto come fiamma ardente, ove anco di fuori mostra cose tali che alcune volte parerà apunto come pazza.
[5317] Mostrerà anco di fuori voci e parole di tant’amore, di tant’affetto rivolto al suo Dio, che li parerà che li crepi il cuore. Dirà: “O Dio mio! O Creator! O Redentor mio! Aiutatemi, io muoro, io m’abbrugio, io mi consumo, muoro, muoro! O Sposo dell’anima mia, non più! Signore, voi siete Dio mio carissimo, amabilissimo, clementissimo. Voi siete ogni mia gloria, felicità, pace. Voi, o ineffabile Dio, siete ogni mio compìto bene. A voi ricorro, o dolcissimo Giesù! In voi spero. Voi, o prezioso Cristo, sarete la mia difesa. Altro bene non voglio, altra ricchezza non bramo, altro tesoro non desidero, né altro paradiso voglio. Voi, o santo Giesù, sarete il mio paradiso, e più goderò con voi nell’inferno, che senza voi nel cielo. Voi, voi bramo. Voi solo desidero e cerco, né altro voglio, tanto in questa come nell’altra vita, che voi solo, e a voi e per voi darei il cielo, la terra e tutte le cose create. Il mio cuore non può più capire altro che voi. O clementissimo Dio! Quando mi unirò, mi transformerò, mi liquefarò, mi consumerò, m’abbrugierò nella fornace dell’amor vostro? Veni ormai, Dio del cielo, ad abitar nel mio cuore! O vita dell’anima mia! Quando mi sommergerete nel profondo mare della vostra carità? E quando, o Dio mio, tutto mi svenirò in anima e in corpo per vostro amore?”...
[5319] O gloria de’ beati! O sostegno de’ cieli! O conforto de’ poveri mortali! Quanto sono inenarrabili e ininvestigabili le maraviglie vostre! O indicibile, o ininvestigabile altezza e profondità! O eccelso Dio, e quando l’anima mia sarà tutta unita alla Maestà vostra? E quando diventerò io pazzo per vostro amore? E quando, Dio mio, verrò io in quella celeste patria a lodarvi e a benedirvi?... O Giesù, o buon Giesù, prendi il mio cuore e non me lo dar più! E come potrò io vivere senza di voi? Voi, o Dio, siete la mia vita, la mia memoria, il mio intelletto, la mia volontà, il mio cuore. Tutti li miei sentimenti interni ed esterni siano a voi soggetti. E dove anderò io, o intimo del mio cuore, senza di voi? O grandezza, o sapienza, o potenza di quel Dio che è la gloria de’ beati!... Voi siete il mio carissimo, amabilissimo e dolcissimo Dio!... Io vorrei che tutte le foglie degli alberi fussero lingue per lodarvi e benedirvi. O ineffabile Dio, perché non posso io convertir tutte le genti del mondo alla vera fede, al vostro vero conoscimento? E perché, sposo dell’anima mia, non posso io far che le squame de’ pesci, le piume d’uccelli, li peli degli animali fussero lingue acciò vi lodassero e vi benedissero? E se potessi farlo, sapete pur, o amor mio, che io di buon cuore lo farei. Almeno, o gioia dell’anima mia, vi afferisco li desideri miei. Ricevete, o Dio, almeno la mia volontà, la quale pur sapete che io farei, se io lo potessi fare. O Santo! O misericordioso Dio, aiutatemi… Fate che io camini con veloce corso a voi…
2.c. Le attuali Costituzioni dei Frati Minori Cappuccini
[n. 4,1-3] Come Frati Minori Cappuccini dobbiamo conoscere l’indole e il progetto di vita della nostra Fraternità, affinché la nostra vita, rettamente adattata ai diversi tempi, si ispiri alla genuina tradizione dei nostri fratelli… Seguendo il loro esempio, sforziamoci di dare la priorità alla vita di preghiera, specialmente contemplativa…
[n. 55] 1. Custodiamo e promoviamo quello spirito contemplativo che risplende nella vita di san Francesco e dei nostri antichi frati. Perciò dedichiamo ad esso un più ampio spazio coltivando l’orazione mentale.
2. L’orazione mentale è maestra spirituale dei frati, i quali, quanto più sono veri e spirituali frati minori, tanto più pregano interiormente. Pregare, infatti, non è altro che parlare a Dio con il cuore; e in realtà non prega chi parla a Dio soltanto con la bocca. Ognuno perciò si sforzi di attendere all’orazione mentale o contemplazione e, secondo l’insegnamento di Cristo, ottimo maestro, di adorare l’eterno Padre in spirito e verità, adoperandosi con sollecita cura di illuminare la mente e di infiammare il cuore più che di formulare parole.
3. L’autentica orazione mentale ci conduce allo spirito di vera adorazione, ci unisce intimamente a Cristo e accresce di continuo nella vita spirituale l’efficacia della sacra Liturgia.
4. E perché non si affievolisca mai in noi lo spirito di preghiera, ma si accenda ogni giorno sempre di più, dobbiamo dedicarci quotidianamente a questo esercizio.
5. I ministri, i guardiani e gli altri, ai quali è affidata la cura della vita spirituale, si adoperino perché tutti i frati progrediscano nella conoscenza e nella pratica dell’orazione mentale.
6. I frati poi attingano alle fonti genuine della spiritualità cristiana e francescana lo spirito di preghiera e la preghiera stessa per apprendere la sublime conoscenza di Gesù Cristo.
[n. 56] 1. Il primato dello spirito e della vita di preghiera sia assolutamente attuato tanto dalle fraternità che dai singoli frati, dovunque si trovino, come è richiesto dalle parole e dall’esempio di san Francesco e dall’autentica tradizione cappuccina.
2. È della massima importanza formare la coscienza alla necessità vitale della preghiera personale. Ogni frate, dovunque si trovi, si procuri ogni giorno il tempo sufficiente per l’orazione mentale, per esempio un’ora intera.
3. I Capitoli provinciali e locali provvedano che tutti i frati abbiano ogni giorno il tempo necessario per l’orazione mentale da farsi in comune e in privato.
4. La fraternità locale nei Capitoli si interroghi sulla preghiera comunitaria e personale dei frati. I frati, e per il loro ufficio pastorale prima di tutto i superiori, si ritengano reciprocamente responsabili nella animazione della vita di preghiera.
5. Come discepoli di Cristo, benché poveri e fragili, perseveriamo nella preghiera, affinché coloro che cercano sinceramente il Signore si sentano attratti a pregare con noi.
6. Coltiviamo nel popolo di Dio lo spirito e lo sviluppo della preghiera, soprattutto interiore, poiché questo, fin dall’inizio, fu carisma della nostra Fraternità di Cappuccini e, come testimonia la storia, germe di genuino rinnovamento. Perciò, impegniamoci con zelo ad apprendere l’arte della preghiera e a trasmetterla agli altri.
7. L’educazione alla preghiera e alla esperienza di Dio con metodo semplice qualifichi la nostra azione apostolica. Gioverà molto adoperarsi affinché le nostre fraternità siano autentiche scuole di preghiera.
3. Una “eredità difficile” ma preziosa
1. Cosa dunque intendiamo per Orazione mentale? Proviamo a fare una sintesi:
Ø Se l’orazione mentale è «un intimo rapporto di amicizia, un intrattenersi da solo a solo
con Colui da cui sappiamo di essere amati», come ci dice s. Teresa d’Avila, allora essa è il
tempo in cui, guidato dallo Spirito, cerco «l’amore dell’anima mia» (Ct 1,7), che è il Signore Gesù e, in lui, il Padre;
Ø è un silenzioso sostare ai piedi del Maestro per ascoltarlo con fede e amore, ma senza
moltiplicare pensieri e parole: si può meditare anche nell’orazione, ma in primo piano
deve esservi lo sguardo rivolto al Signore, in una silenziosa familiarità con Lui;
Ø è il momento in cui diamo del Tu a quel Dio che ha il volto di Cristo e che nella fede
abbiamo riconosciuto come amabile Padre prodigo di misericordia e accolto come
Signore e Salvatore;
Ø in sintesi, è una preghiera silenziosa e prolungata che ha lo scopo di tener viva nel cuore
la grata memoria di ciò che il Signore ha fatto, continua a fare e farà per noi uomini e per
la nostra salvezza, e ravvivare così ogni giorno il proposito e l’impegno concreto di
rispondergli amandolo e servendolo nei fratelli…
2. Essa può avere come contenuti da contemplare la Parola di Dio del giorno o la lettura continua di un libro della Bibbia, i Misteri principali della vita del Signore e le sue azioni salvifiche nella storia, qualcuno degli Scritti di san Francesco, la stupefacente e misteriosa bellezza del creato, i beni eterni verso cui siamo in cammino, la rilettura della nostra vita alla luce della fede per rendere grazie e per riconciliarci col nostro passato; ma il tutto con calma e con le ampie pause di silenzio raccomandate dai maestri di orazione.
3. È una contemplazione amorosa che dà ampio spazio alla lode e al ringraziamento. Ma è anche preghiera di domanda per chiedere la forza di cui abbiamo bisogno per continuare a vivere di fede in un mondo secolarizzato, per gustare la gioia di appartenere al Signore in modo speciale in quanto consacrati, per portare avanti con fedeltà gli impegni connessi ai doveri del nostro stato, per vivere con fede - alla luce e nella logica del mistero pasquale - ciò che di giorno in giorno la vita ci presenta.
4. Da questo “sostare a lungo in compagnia di Colui che ci ama” dipende in gran parte quella serenità, quella gioia profonda che rende bella una persona: la rende solida e fondamentalmente ottimista perché capace di leggere le cose e gli eventi alla luce del Regno, che è ancora in divenire, ma che certo si compirà; e la rende così testimone efficace della “grande speranza” descrittaci mirabilmente nella Spe salvi ai nn. 27-31.
5. Vi è un serio ostacolo da rimuovere oggi anche per noi frati, ed è un pregiudizio che dipende in buona parte dalla nostra superficialità: è quello di ritenere che l’orazione mentale sia una “fissa” un po’ stravagante dei primi Cappuccini e dunque in certo senso un’anomalia da superare. Facendosi interprete del costante Magistero della Chiesa[25], il Catechismo della Chiesa Cattolica - come abbiamo visto - sottolinea con vigore l’importanza di questa forma di preghiera, che descrive diffusamente dopo aver trattato più sobriamente della preghiera vocale e della meditazione.
È ampiamente dimostrato poi che la dimensione contemplativa è stata componente prioritaria ed ha avuto il primato assoluto sia nella vita di Francesco[26], sia in tutte le Riforme, francescane e non. I Cappuccini l’hanno saputa recuperare con grande finezza e rimetterla al centro della loro vita, interpretando correttamente anche in questo il carisma del Fondatore.
6. Sia Francesco che i primi Cappuccini hanno percepito a tal punto il fascino della dimensione contemplativa da esser stati tentati di renderla esclusiva. Entrambi hanno poi trovato un mirabile equilibrio tra azione e contemplazione: l’uno con il consiglio di Chiara e Silvestro (cf. LegMin 2,5: FF 1343), gli altri con l’arrivo dall’Osservanza dei “big” che nel sapiente testo delle Costituzioni del 1536 hanno corretto lo sbilanciamento in senso eremitico dato da Ludovico da Fossombrone con gli Statuti di Albacina.
7. I santi sono stati i migliori interpreti di questa ricca esperienza contemplativa dalla forte valenza affettiva: ne sono ad un tempo i frutti più belli e i veri maestri[27].
8. Era tutto oro colato? Vi è stata solo luce nella vita di preghiera dei Cappuccini del passato in genere ed anche in quelli della prima e seconda generazione? No! Poiché «basta essere uomini per essere dei poveri uomini» (P. Mazzolari), la miseria e i malanni non sono mancati neppure tra di loro. Vediamo quali sono stati, anche se solo per accenni.
· Risente negativamente della visione teologica propria del tempo: al “sola fide” di Lutero, che può condurre verso un quietismo paralizzante, si finisce per opporre un eccessivo protagonismo dell’uomo, che pare costretto a fare acrobazie ascetiche per non dispiacere ad un Dio che, alla fine, rimane maestosamente lontano e sempre un po’ accigliato.
· La presenza del Signore Gesù è forte, ma Egli finisce per essere soprattutto Colui che è stato e continua ad essere ingiustamente colpito ed offeso dai nostri peccati, e dunque anch’Egli viene percepito un po’ corrucciato (è il tempo in cui si diffonde l’iconografia del Padre e di Cristo con i fulmini in mano, a stento placati dalla Vergine o da qualche Santo potente, come Francesco e Domenico).
· Nonostante la bella fioritura di frati teologi di qualità, predicatori e scrittori popolari di notevole efficacia e raffinate anime contemplative - anche e soprattutto tra i fratelli laici - per molti l’orazione mentale restava un miraggio, qualcosa di difficile e faticoso… Al dire di un personaggio di spicco e profondo conoscitore della situazione dei Cappuccini del suo tempo, il padre Valeriano Magni[28], i veri Maestri di spirito erano pochi e poco preparati, e di conseguenza un po’ pasticcioni ed approssimativi erano molti dei loro discepoli . Egli scrive: «In riferimento alle leggi che animano i frati a progredire durante la vita nelle virtù… le Costituzioni non stabiliscono niente eccetto che tutti i frati si diano continuamente all’orazione. Però non viene prescritto nessun speciale esercizio, ma una volta iniziati dal Maestro, non vengono mai più neanche minimamente esercitati spiritualmente in forza delle nostre Costituzioni, ma solo lasciati a se stessi e a Dio»[29].
· L’effetto di questi fattori su molti frati era (e può essere ancora) l’oscillazione tra lo Scilla dello scrupolo, con sensi di colpa che, crescendo con gli anni, possono minare gravemente l’equilibrio anche umano delle persone; e il Cariddi dell’acedìa, come tedio-noia-indifferenza-anestesia spirituale: un “male oscuro” che rode e svuota di significato le cose dello Spirito e che i Padri del Deserto chiamavano “demonio meridiano”[30]. È provocato dallo scoraggiamento e dalla rassegnazione nel vedersi sempre lontani da un ideale che richiede comunque un certo eroismo. L’equilibrio che consente di evitare entrambi i pericoli viene raggiunto - come vedremo - quando lo Spirito ci rende capaci di riconoscerci poveri (sempre “a mani vuote”, come diceva Teresa di Lisieux), ma anche sempre in cammino: né presuntuosi, né scoraggiati, ma umili e fiduciosi, confidenti e fedeli sino alla fine[31].
***
CAPITOLO III
IN CAMMINO SOTTO LO SGUARDO DEL SIGNORE
Ci prefiggiamo ora di conoscere quale sia l’atteggiamento interiore che ci aiuti a “sostare” (in latino manere) davanti al Signore volentieri, vincendo l’inquietudine che ci spinge a fuggire, come Adamo, dalla sua presenza; e divenire così capaci - sorretti dallo Spirito Paraclito e in compagnia di Maria, nostra madre - di vivere ogni giorno questa prolungata sosta dinanzi a Lui, sotto il suo sguardo pieno di luce e di calore, per una salutare “cura del sole” che risana le ferite e ridona la forza di amare. E intendiamo parlare di preghiera contemplativa, ove contemplazione vuol dire esser presi dalla gioia e dalla bellezza della rivelazione divina come lieta notizia (eu-aggelion) dell’amore di Dio per noi in Cristo Gesù.
Come sempre, l’etimologia ha anche qui un suo peso: contemplor-contemplari è formato da con-templum, e significa guardare a lungo e con viva partecipazione qualcosa di bello; nel nostro caso, saper vedere ovunque i segni della presenza di Dio, percependo il mondo intero come un tempio. La contemplazione è così il dono col quale ci è dato di restare per un certo tempo consapevolmente alla presenza del Signore per avere, sulla realtà sovente opaca che ci circonda, uno sguardo reso da Lui capace di cogliere tutto come segno trasparente del suo amore per noi.
Potremmo dire che essa può considerarsi per la vita del singolo ciò che la celebrazione eucaristica è per la vita della Chiesa: in subordinazione e come sua derivazione, anch’essa è culmen et fons della nostra identità di figli nel Figlio.
1. Scoprirci amati
Come abbiamo già detto, per pregare occorre essere capaci di sederci in silenzio accanto a noi stessi ed attendere pazientemente il passaggio del Signore. E come l’esperienza ci insegna, l’amicizia è divenuta profonda solo quando è possibile rimanere in silenzio con l’altro. E’ così anche col Signore: la nostra preghiera è approdata alla maturità quando abbiamo imparato a sentirci bene accanto a Lui, in silenzio. E questo presuppone che abbiamo incominciato a vivere riconciliati con la nostra povertà e ad amare correttamente noi stessi.
Ma per quale via si può giungere ad un giusto amore di sé? Prima di chiederci di amarlo, il Signore ci chiede di scoprirci amati da Lui. Soltanto allora possiamo sperare che la nostra risposta sia in qualche modo adeguata al suo dono.
Prima il Signore, fissatolo, lo amò; poi gli disse: va... vendi... da’...vieni e seguimi... (Mc 10, 21).
L’apparente durezza delle parole di Cristo si scioglie dinanzi alla previa esperienza di saperci amati da Lui.
Come Natanaele (Gv 1, 46-51), “ogni orante pensa di incontrare Gesù per poterlo vedere, e deve invece accorgersi, sotto lo sguardo di Gesù, che da lungo tempo è lui ad essere visto, osservato, giudicato ed assunto nella grazia, così che altro non gli resta che inginocchiarsi e adorare il Verbo di Dio: ‘Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!’” [32]. E come per gli apostoli, sarà anche per noi l’inizio di un nuovo straordinario cammino.
E’ stato questo l’itinerario percorso da Francesco: dal momento in cui si scoprì amato dal Signore nel dialogo silenzioso e profondo davanti al Crocefisso di san Damiano, egli divenne capace di affidare a Lui la guida della propria vita, e cominciò ad esprimere in precise scelte concrete la certezza che la via che il Signore propone nel Vangelo è davvero quella che porta alla vita vera.
E gli fu possibile lasciarsi condurre fiduciosamente da Lui a vincere se stesso, disposto a soffrire ogni giorno qualcosa per Lui, ma con una crescente letizia interiore.
Da Francesco impariamo che la penitenza, quando è vera, nasce dalla gioia, di essa si alimenta e ad essa conduce. Vera penitenza e gioia spirituale sono sorelle inseparabili. E al tempo stesso è proprio un cammino di conversione autentico che consente di sperimentare e proclamare poi con efficacia la gioia di essere cristiani, restituendo così al Vangelo il suo significato più vero di lieto annuncio[33].
2. Amati così come siamo
Saperci amati così come siamo e crederlo sino in fondo è la via per scoprirci amabili ad intra (ai nostri occhi) e divenirlo anche ad extra (con i fratelli).
Per far questo, dobbiamo lasciarci guidare dallo Spirito a percepire sempre meglio il vero volto del Dio rivelatosi in Gesù Cristo. Che non sia un cammino facile lo sapevano bene i Padri del deserto:
Un giorno un giovane monaco chiese ad un anziano: “Abba, dimmi qual è l’opera più difficile del monaco”… Ed egli rispose: “L’opera più difficile è pregare, pregare dando del TU a Dio”. E aggiunse: “Ricordati che un uomo, tre giorni dopo morto, di fronte alla presenza di Dio prova ancora difficoltà a guardarlo in faccia, a dirgli ‘Padre’ e a dargli del TU: questa è l’opera più difficile”[34].
E in realtà è necessario fare un notevole cammino interiore per accogliere nel cuore il dono immenso della paternità di Dio, che ha dell’incredibile. Istintivamente, siamo soliti attribuire a Dio il volto che noi abbiamo su noi stessi: pensiamo che Egli ci veda con gli occhi con cui noi guardiamo noi stessi.
E sovente ciò che noi pensiamo di noi stessi è quanto è andato solidificandosi nel nostro cuore attraverso le esperienze che abbiamo vissuto con gli altri, specialmente quelle con i nostri genitori. Ed è abitualmente uno sguardo severo, esigente, mai del tutto positivo. Eppure il Dio che abbiamo conosciuto in Gesù Cristo è davvero il Totalmente Altro! Ed è solo con Lui che abbiamo a che fare.
Ogni altra immagine di Dio scade al livello di un idolo da noi scolpito (cfr. salmo 115 e 135).
A questo riguardo può esserci utile la seguente considerazione di un noto contemplativo del nostro tempo, Thomas Merton:
“Una delle chiavi della vera esperienza religiosa - egli dice - è la sconvolgente
presa di coscienza del fatto che, per quanto noi siamo odiosi a noi stessi, non lo
siamo affatto e mai per Dio. Questa coscienza ci fa meglio capire la differenza
tra il nostro amore e il suo. Il nostro amore è un bisogno, il suo è un dono.
Noi abbiamo bisogno di vedere il buono in noi per considerarci amabili. Egli no.
Ci ama non perché noi siamo buoni, ma perché Lui è buono.
Finché ci rapportiamo con un Dio che è solo una proiezione del nostro povero io,
noi non possiamo che provare timore per una potenza tremenda e insaziabile,
che avrebbe bisogno di vedere la bontà in noi per accoglierci, e che per l’infinita
chiarezza della sua visione non trova altro che male, e pertanto non può che
essere severo con noi...”[35].
3. Non per pura condiscendenza
All’acuta annotazione del Merton potremmo aggiungere tuttavia che l’amore del Signore per noi non è pura condiscendenza, quasi si trattasse solo di un rassegnato “abbassarsi” verso la nostra povertà; è invece anche passione e incanto per il bello che Egli non manca mai di vedere in ognuna delle “sue” creature, le quali - tutte - esistono perché Lui le ha pensate, amate e volute in modo consapevole e libero.
Di fatto, Dio ha una profonda passione: tale passione siamo ciascuno di noi e noi tutti insieme. Egli si appassiona alla nostra vita, a tutto ciò che ci accade. Amante sempre di noi innamorato, è perennemente in trepidante attesa di essere ammesso alla nostra compagnia, come una madre desidera condividere le vicende dei suoi figlioli.
Il tempo che destiniamo alla preghiera è quello in cui gli diciamo: Maranà tha, vieni Signore!
Io, la passione del mio Dio, voglio divenire la sua gioia, lasciandomi invadere ed afferrare
dal suo Spirito che vuole plasmare il mio volto perché somigli di più a quel Figlio di cui
Egli si compiace pienamente, il Signore Gesù.
Noi conosciamo per esperienza la fatica dell’uomo nel ricercare Dio, ed è questa che ci balza sempre agli occhi quando parliamo di fede. C’è ed è vera. Ma vi è pure un altro punto di vista dal quale possiamo leggere il dramma della “storia della salvezza”: è il punto di vista di Dio.
Ci consente di cogliere la fatica che Egli ha fatto, fa e farà sino alla fine dei tempi per “salvare” l’uomo, vertice del creato e sua profonda passione, suo tormento continuo. E Lo vediamo come un Dio innamorato di noi, costretto a rincorrerci sempre; e così spesso respinto o accolto da noi malamente.
In Gesù Cristo abbiamo conosciuto un Dio mendicante d’amore, vulnerabile e povero, un Dio il cui amore è disatteso e respinto, un Dio da noi messo in croce...
Ce lo ricordava in modo mirabile Papa Benedetto nel Messaggio per la Quaresima 2007:
E’ nel mistero della Croce che si rivela appieno la potenza incontenibile della misericordia del Padre celeste. Per riconquistare l’amore della sua creatura, Egli ha accettato di pagare un prezzo altissimo: il sangue del suo Unigenito Figlio…
Nella Croce si manifesta l’eros di Dio per noi. Eros è infatti… quella forza che non permette all’amante di rimanere in se stesso, ma lo spinge ad unirsi all’amato… Quale più folle eros di quello che ha portato il Figlio di Dio ad unirsi a noi fino al punto di soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti? Cari fratelli e sorelle, guardiamo a Cristo trafitto in Croce! E’ Lui la rivelazione più sconvolgente dell’amore di Dio, un amore in cui eros e agape, lungi dal contrapporsi, si illuminano a vicenda. Sulla Croce è Dio stesso che mendica l’amore della sua creatura: Egli ha sete dell’amore di ognuno di noi. L’Apostolo Tommaso riconobbe Gesù come “Signore e Dio” quando mise la mano nella ferita del suo costato…
Gesù ha detto: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). La risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui…[36]
Sì, da sempre, o Signore, Tu vai cercando qualcuno che Ti accolga fino in fondo, che apra a Te la sua vita e si lasci invadere dal tuo amore appassionato. “Donna, dammi da bere!”, chiedevi un giorno alla Samaritana. E sulla croce ha gridato: “Ho sete!”... Molti Padri hanno letto questo tuo grido come la domanda che Tu rivolgi ad ognuno perché ti si lasci entrare nella nostra vita e ti si accolga come “Signore” di essa. E’ stata questa sete che ti ha spinto alla follia del tuo nascere povero a Betlemme, del tuo morire nudo sulla croce e del tuo rimanere tra noi nell’oscurità sconvolgente del mistero eucaristico: le tre espressioni del tuo “amore kenotico” che Francesco non si stancava mai di contemplare.
Per dare un senso al tuo venire tra noi, sarebbe bastato che una sola persona, nell’arco dell’intera storia umana, Ti avesse accolto ed amato davvero... E in certo senso Tu non sapevi se ciò sarebbe accaduto. Hai rischiato anche Tu, come accade talvolta pure a noi quando decidiamo di amare davvero: l’amore porta una componente di rischio, rende vulnerabili, perché non può che “proporsi” e può cadere nel vuoto, essere del tutto o in parte disatteso... E’ consolante sapere che vi sono state, e vi sono ancor oggi, persone che - come Maria, Francesco, Teresa, Ignazio… - ti hanno detto di sì, un sì totale e per sempre.
Essi sono state la tua gioia, la gioia del loro Dio.
Essere la tua gioia, la gioia del mio Signore e mio Dio: può esservi aspirazione più grande?
“Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se
stesso per me” (Gal. 2, 20).
“Pregare è intrattenersi con Colui dal quale sappiamo di essere amati” (Santa Teresa di Gesù).
Nessuno sta volentieri e a lungo in compagnia di una persona dalla quale sa di essere sopportato; è invece dolce intrattenersi con chi sappiamo che ci vuole bene, ci stima e considera preziosa la nostra presenza. Altra cosa è poi stare con una persona di cui si è innamorati. Il nostro punto di partenza è quello di sostare a lungo alla presenza di Colui che sappiamo essere innamorato di noi, col desiderio ardente di innamorarci noi pure di Lui. Non dimenticando che noi sappiamo restare fedeli solo alle cose che amiamo perché in qualche modo ci piacciono. Quando c’è disamore, inizia la presa di distanza e l’infedeltà, almeno potenziale: è così nel matrimonio, nelle amicizie, nel lavoro. Ed è così pure col Signore: il suo amore giunge a noi attraverso la Parola e i Sacramenti (la “divina liturgia”), ma se Egli non rimane una presenza che il nostro cuore apprezza e che ci dà gioia, piano piano ci allontaneremo da Lui, sorgente di acqua viva, per cercare altrove qualche surrogato di gioia, in cisterne screpolate (Ger 2, 13). La preghiera contemplativa, di cui qui stiamo parlando, è il tempo privilegiato in cui coltiviamo il nostro amore per il Signore ed insieme il termometro del nostro reale apprezzamento per Lui: se ad una cosa diamo poco tempo, infatti, vuol dire che per noi vale poco…
4. Come figli nel Figlio
Il Dio che si è rivelato a noi nel Signore Gesù Cristo è “tenerezza, consolazione, umiltà, sicurezza, riposo, gioia e letizia, comprensione, è protettore, custode e difensore...”, come Francesco canta nelle Lodi di Dio altissimo (FF 261). E allora noi possiamo stare (rimanere, direbbe il Vangelo di Giovanni) davanti a Lui senza temere, in una pace profonda e - certi di essere da Lui accolti per la sola grandezza del suo cuore di Padre tenerissimo che non cessa di vedere in noi i lineamenti dell’Unigenito “che gli basta sempre e in tutto e per il quale a noi ha fatto cose tanto grandi” (Rnb 23,5. FF 66) - abbandonarci tra la sue braccia con la confidente parresìa/audacia che nello Spirito ci spinge a gridare abbà-papà (Rom. 8,15: “E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno Spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo Abbà”).
Alla scuola del salmista possiamo fare nostra l’esperienza del bambino svezzato che sa di poter stare “tranquillo e sereno...in braccio a sua madre” (salmo 130). Letto in quest’ottica, diviene un salmo stupendo:
Signore, non si inorgoglisce il mio cuore
e non si leva con superbia il mio sguardo;
non vado in cerca di cose grandi,
superiori alle mie forze
Io sono tranquillo e sereno
come bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come un bimbo svezzato è l’anima mia.
Speri Israele nel Signore, ora e sempre!
Pregare da cristiani, ossia inseriti nel mistero del Cristo Salvatore e guidati dal suo Spirito, vuol dire allora metterci fiduciosi e confidenti davanti al volto del Signore; vuol dire lasciare che il suo sguardo si posi su di noi e prendere sempre più coscienza che il suo è lo sguardo di un amore tenerissimo e incondizionato, il solo capace di sanare la ferita profonda che, in misura più o meno grande, è presente nel cuore di ciascuno: la ferita inscritta nella nostra finitudine creaturale, che ci fa percepire limitati, mai pienamente positivi, e dunque sempre alle prese col timore di non essere abbastanza amabili.
Il lungo cammino che ci è chiesto, alla fin fine, è quello di passare dalla situazione interiore propria del “fratello maggiore” della parabola lucana (Lc 15, 11-32), che vede Dio come un padrone a cui sottostare a denti stretti e da cui rivendicare diritti, a quella del “fratello prodigo” che torna col cuore ancora simile al cuore del maggiore, ma scopre con commozione un padre tenerissimo, a cui finalmente riesce ad abbandonarsi pieno di gratitudine. In questo consiste per ognuno il mutamento della conversione.
5. Amabili perché amati
E così, pieni di gratitudine, possiamo anche noi esclamare con il grande Agostino:
“poiché Tu mi hai amato per primo, o Signore, mi ha reso amabile!”.
Un approfondimento di questa densa, fondamentale affermazione ci viene offerto da un altro grande dell’esperienza cristiana autentica, il danese Soren Kierkegaard (1813 -1855):
“O Dio che ci hai amato per primo, noi parliamo di te come di un semplice fatto storico, come se una volta soltanto Tu ci avessi amati per primo. E invece Tu lo fai sempre. Durante tutta la vita, Tu ci ami per primo. Quando ci svegliamo al mattino e volgiamo a te il nostro pensiero, Tu sei il primo, Tu ci hai amati per primo. Se mi alzo all’alba e volgo a te, in un medesimo istante, il mio animo, Tu mi hai già preceduto, mi hai amato per primo... E così sempre!” [37].
Questa gioiosa constatazione, questa lieta notizia che costituisce oggettivamente il centro e la sostanza del Nuovo Testamento, può e deve diventare il fondamento di un continuo risanamento della nostra più vera identità, rendendo anche noi finalmente consapevoli, come Francesco, che “l’uomo tanto vale quanto vale davanti a Dio” (Ammonizione 19, FF 169).
E Dio ci vede sempre nella luce del suo Verbo Unigenito, ad immagine del quale ci ha pensati, amati e voluti; ed ognuno di noi vale per Lui la morte di questo suo dilettissimo Figlio, che ha preso su di sé la Croce proprio per assicurarci che anche noi, in Lui, siamo un enorme tesoro agli occhi di Dio. “Se vuoi conoscere chi sei, non guardare quello che sei stato, ma l’Immagine che Dio aveva nel crearti” (Evagrio Pontico)[38].
Ciò che il libro del profeta Isaia rivela ad Israele vale per ciascuno di noi, e le parole ricolme di tenerezza e di consolazione ispirate dallo Spirito che leggiamo là, ciascuno di noi le può riferire fiduciosamente a se stesso:
“Così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe,
che ti ha plasmato, o Israele:
‘Non temere, perché io ti ho redento,
ti ho chiamato per nome, e tu mi appartieni (tu sei mio).
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovessi passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare;
poiché io sono il Signore tuo Dio,
il Santo d’Israele, il tuo Salvatore...
Tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo...
Non temere, perché io sono con te...
tu porti il mio nome:
io ti ho creato con sapienza,
per manifestare la mia gloria” (Is. 43, 1-7).
“Si dimentica forse una donna del suo bambino
così da non commuoversi per il figlio della sua carne?
Anche se ci fosse una donna
che si dimenticasse del proprio figlio,
io invece non ti dimenticherò mai!” (Is. 49, 15).
“Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza,
mi ha avvolto con il manto della giustizia,
come uno sposo che si cinge il diadema
e come una sposa che si adorna di gioielli…
Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi darò pace,
finché non sorga come stella la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora i popoli vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
ti si chiamerà con un nome nuovo
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma tu sarai chiamata Mio compiacimento
e la tua terra, Sposata,
perché il Signore si compiacerà di te
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposerà il tuo Creatore;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te” (Is 61,10-62, 1-5).
“Signore, tu sei nostro Padre,
noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma;
tutti siamo opera delle tue mani” (Is 64, 7).
Questo è il volto di Dio che scopriamo già in alcuni Salmi e in questi testi che rappresentano il vertice della rivelazione nell’A. T.. Ed è un volto che viene non solo confermato, ma portato a compimento dal N.T., e che raggiunge il suo massimo splendore nel Mistero Pasquale[39].
San Francesco è stato folgorato da questo volto, e se ne è fatto testimone straordinario e cantore mirabile con le parole piene di tenerezza che lo Spirito gli ha posto in cuore nella bruciante esperienza delle Stigmate a La Verna.
Tu sei santo, Signore, solo Dio, che operi cose meravigliose.
Tu sei forte, Tu sei grande, Tu sei altissimo, Tu sei re onnipotente,
Tu, Padre santo, re del cielo e della terra.
Tu sei trino ed uno, Signore Dio degli dèi.
Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero.
Tu sei amore e carità, Tu sei sapienza, Tu sei umiltà, Tu sei pazienza,
Tu sei bellezza, Tu sei mansuetudine, Tu sei sicurezza, Tu sei quiete.
Tu sei gaudio e letizia, Tu sei la nostra speranza, Tu sei giustizia,
Tu sei temperanza, Tu sei tutta la nostra ricchezza a sufficienza.
Tu sei bellezza, Tu sei mansuetudine. Tu sei protettore,
Tu sei custode e nostro difensore, Tu sei fortezza, Tu sei refrigerio.
Tu sei la nostra speranza, Tu sei la nostra fede, Tu sei la nostra carità.
Tu sei tutta la nostra dolcezza, Tu sei la nostra vita eterna,
grande e ammirabile Signore,
Dio onnipotente, misericordioso Salvatore (FF 261).
Grazie a questo tuo rivelarti, io scopro, o Signore, che Tu non mi guardi con i miei occhi, ma con i tuoi. Ed è tutto un altro sguardo, soprattutto se considero che gran parte delle nostre energie è speso per cercare di resistere alla minacciosa e deprimente sensazione di valere poco, che ci rende così suscettibili, permalosi e reattivi ad ogni minimo segno di disistima[40], sempre alle prese col timore di non essere abbastanza amati perché non amabili. E si soffre, e si fa soffrire, di quel “male oscuro” oggi così diffuso che è la depressione. Solo quella preghiera che mi consente di ascoltare la Tua voce e di lasciarla depositare nel mio cuore è in grado di liberarmi dal bisogno di elemosinare la gloria - sempre incerta e fragile! -che può venirmi dagli altri[41]. Infatti, nella misura in cui lascerò che il Signore entri nella mia vita, la percezione che avrò della mia identità dipenderà sempre meno da ciò che gli altri pensano o dicono di me. E’ la preghiera che mi educa via via a non fare dei rapporti interpersonale un idolo a cui bruciare troppo incenso[42].
Se Tu mi ami così come sono, anch’io posso amarmi e vivere finalmente riconciliato con me stesso, anche con ciò che mi limita e mi fa debole... E posso poi guardare attorno a me, il mondo dei miei fratelli, con uno sguardo pieno di misericordia, di bontà e di pazienza. Poiché ogni giorno scopro che questo è lo sguardo che Tu hai su di me, alla tua scuola apprendo a far sì che divenga via via anche lo sguardo mio su me stesso e su chi mi vive accanto, rendendomi conto sempre meglio che siamo tutti racchiusi entro un immenso disegno di misericordia che costituisce la nostra sola solida speranza.
6. Resi amabili anche con i fratelli
La Sacra Scrittura nel suo insieme, ed in modo tutto particolare il Nuovo Testamento, afferma che il nostro amore a Dio e al prossimo suppone un fatto precedente, senza il quale resterebbe incomprensibile: l’amore di Dio verso di noi. E’ questo il dato che precede ogni altro, origine e misura del nostro amore. L’amore dell’uomo nasce da quello di Dio, e deve commisurarsi su di esso.
“Uno dei più bei frutti della preghiera (e un criterio di discernimento dell’autenticità di essa) é far crescere nell’amore del prossimo. Se la nostra preghiera è vera, essa ci avvicina a Dio, ci unisce a lui e ci fa dunque percepire e condividere l’amore infinito che egli nutre per ciascuna delle sue creature. La preghiera dilata e intenerisce il cuore. Là dove manca la preghiera, i cuori si induriscono e l’amore si raffredda…”[43].
Benedetto XVI ci ricordava più sopra che la risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è anzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui. E continuava:
Accettare il suo amore però non basta. Occorre corrispondere a tale amore ed impegnarsi poi a comunicarlo agli altri: Cristo “mi attira a sé” per unirsi a me, perché impari ad amare i fratelli con il suo stesso amore. “Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto!” (Gv 19, 37). Guardiamo con fiducia al costato trafitto di Gesù, da cui sgorgarono sangue ed acqua… Il sangue, simbolo dell’amore del Buon Pastore, fluisce in noi specialmente nel mistero eucaristico:l’Eucarestia ci attira nell’atto ablativo di Gesù… veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione” (Messaggio per la Quaresima 2007).
Per amare Dio devo dunque prima scoprire che sono amato da Lui in Cristo Gesù, e così imparare a credere piano piano, anche con il cuore, che sono amabile. Solo così posso amare me stesso (e, al di là delle apparenze, non è poi così facile). E solo amando me stesso nella luce dell’amore di Dio, sono reso capace di vivere anche il secondo comandamento che mi dice: “ama il prossimo tuo come te stesso” (si ricordi l’acuto monologo di Pietro Bernardone, nel musical Forza, venite gente, sulla radicale impossibilità di amare veramente il prossimo fino a quando uno prova schifo per se stesso). Senza esserne consapevoli, sovente ci muoviamo dentro questo circolo vizioso:
non amiamo il prossimo, perché non amiamo noi stessi - e non amiamo noi stessi, perché non crediamo alla stupenda Buona Notizia di essere già amati da Dio in Cristo Gesù.
Gente di poca fede, siamo condannati ad essere gente di poco amore: non facendone esperienza noi, non possiamo darlo al prossimo. Tormentati dal timore di non essere amabili e incapaci di vedere ed apprezzare i tanti segni d’amore che già hanno punteggiato la nostra storia e che ogni giorno ci vengono regalati, diveniamo tormento per quanti ci vivono accanto.
Può esserci utile allora far nostra questa preghiera:
Signore, riconciliami con me stesso!
Come potrò incontrare e amare gli altri,
se non riesco ad incontrare ed amare me stesso?
Signore, Tu che mi ami così come sono
e non come mi sogno,
aiutami ad accettare la mia condizione di uomo
limitato eppur chiamato a superarsi.
Insegnami a vivere con le mie luci e le mie ombre,
le mie dolcezze e i miei atti di collera,
i miei sorrisi e le mie lacrime,
col mio passato e il mio presente.
Donami di accogliermi come mi accogli Tu,
di amarmi come Tu mi ami.
Liberami dal tipo di perfezione che io pretendo di darmi,
e aprimi alla santità che Tu vuoi donarmi.
Risparmiami i rimorsi di Giuda,
che è rientrato in se stesso per non uscirne più,
spaventato e disperato davanti al suo peccato.
Concedimi il pentimento di Pietro,
che ha incontrato il silenzio del tuo sguardo
pieno di tenerezza e di misericordia ed è rinat
E se devo piangere,
che non sia su me stesso,
ma sul tuo amore non corrisposto.
Signore, Tu conosci lo scoraggiamento
che talvolta assale il mio cuore.
Il disgusto di me stesso
io lo proietto sovente sugli altri!
Poiché mi hai amato per primo,
Tu, o Signore, mi hai reso amabile.
Che la tenerezza che contempo sul tuo volto
mi renda finalmente amabile anche ai miei occhi.
Dimmi che tutto è possibile a colui che crede.
Dimmi che posso ancora guarire,
alla luce del tuo sguardo e della tua Parola.
E la misericordia che Tu mi doni continuamente
sia la stessa che io faccio fluire sui miei fratelli .
7. Un cuore più grande del nostro
E’ nella preghiera personale vissuta nella gratuità davanti al volto del Signore, e qui soltanto, che possiamo essere “ricostruiti” nella nostra identità più vera ed autentica, quella che ci consente di riconoscerci in tutta umiltà quali “perle” e “tesori di Dio” pur sapendoci tanto piccoli... e la paura di non valere niente e di non essere degni d’amore lascerà il posto alla confidenza e alla speranza:
“Davanti a Lui rassicureremo il nostro cuore,
qualunque cosa esso ci rimproveri:
Dio è più grande del nostro cuore” (1Gv. 3, 19-20).
“Nell’amore non c’è timore. L’amore perfetto scaccia il timore...
e chi teme non è perfetto nell’amore” (1Gv. 4,18).
Una speranza che non abbiamo mai motivo di rimettere in discussione, finché “viviamo nel tempo della misericordia”, come Francesco definiva la nostra vita terrena (2 Cel.38, FF 623).
Ce ne dà conferma un episodio che Clemente d’Alessandria (+ 215) si compiace di narrare
“perché tu - scrive ad un amico - una volta pentito, acquisti fiducia che ti resta una degna speranza di salvezza”.
L’episodio ha al centro un giovane che l’apostolo Giovanni affidò in custodia al vescovo di una città nei pressi di Efeso. “Ti affido costui - gli disse - con ogni premura dinanzi a questa chiesa e prendendo Cristo come testimone”.
Il giovane trovò ospitalità ed attenzione nella casa del vescovo. Ma questi, alla lunga, diminuì la sorveglianza ed il giovane, influenzato da cattivi compagni, prese a commettere delle scelleratezze. Alla fine, disperando della salvezza in Dio, ne commise di sempre più grandi; anzi, mise insieme una banda di cui diventò capo attivo, sanguinario e crudelissimo.
Un giorno Giovanni, passando da quella comunità, chiese al vescovo di restituirgli il deposito affidato a lui: “Chiedo il giovinetto e l’anima di quel fratello”. Amareggiato il vescovo gli rispose: “Quello è morto... Per Dio è morto, giacché è divenuto malvagio e corrotto”.
Profondamente addolorato, l’apostolo si mise in viaggio alla ricerca del giovane. Si lasciò arrestare dalle sentinelle dei predoni e chiese lo portassero al loro capo. Costui fino allora, armato com’era, aspettava. Quando però in colui che veniva avanti riconobbe Giovanni, preso da vergogna si mise a fuggire. Ed egli lo inseguiva con tutte le sue forze, dimentico della sua stessa età e gridando: “Perché, o figlio, fuggi davanti a me che sono tuo padre, che sono vecchio ed inerme? Abbi pietà di me, o figlio. Non temere: tu hai ancora speranza della vita eterna. Io darò a Cristo giustificazione per te. Se sarà necessario, pagherò io volentieri la tua morte, come il Signore pagò la nostra. Per te darò in cambio la mia vita. Fermati. Abbi fede: è Cristo che mi ha mandato”. Egli, ascoltando, in un primo momento si fermò guardando a terra, poi gettò via le armi; infine, tremando, piangeva amaramente. E quando il vegliardo gli venne vicino, lo abbracciò chiedendo perdono per quanto glielo permettevano i singhiozzi, ricevendo un secondo battesimo dalle sue lacrime e nascondendo la destra. Ma Giovanni, facendosi garante per lui e giurandogli che aveva trovato perdono per lui dal Salvatore, pregandolo, supplicandolo e baciando proprio quella destra, lo ricondusse alla chiesa, e non se ne partì di lì, come narrano, prima di averlo posto a capo di quella chiesa, dando un esempio di pentimento sincero e un grande segno di seconda nascita, un trofeo di risurrezione che tutti vedessero”[44].
Commentando l’atteggiamento del terzo servo nella parabola dei talenti (Mt 25,14-30), papa Francesco ci ha esortato a liberarci di un’idea errata di Dio:
«È questo stesso servo che spiega al padrone, al suo ritorno, il motivo del suo gesto, dicendo: “Signore, io so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra” (vv. 24-25). Questo servo non ha col suo padrone un rapporto di fiducia, ma ha paura di lui, e questa lo blocca. La paura immobilizza sempre e spesso fa compiere scelte sbagliate. La paura scoraggia dal prendere iniziative, induce a rifugiarsi in soluzioni sicure e garantite, e così si finisce per non realizzare niente di buono. Per andare avanti e crescere nel cammino della vita, non bisogna avere paura, bisogna avere fiducia.
Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo; anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Siamo chiamati a riflettere per scoprire quale sia veramente la nostra idea di Dio. Già nell’Antico Testamento Egli si è rivelato come “Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Es 34,6). E Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui»[45].
8. Uno sguardo che guarisce la ferita
Pregare significa allora in primo luogo metterci ai piedi di Colui che per pura grazia abbiamo conosciuto quale nostro amabile Salvatore e, guidati dal suo Spirito che solo è capace di far nascere e mantenere nel nostro cuore una grande fiducia-confidenza (l’audacia-parresia dei figli), lasciare che il suo sguardo pieno di misericordia ci raggiunga, entri nel nostro profondo, e così risani e dia pace al nostro cuore inquieto.
E contemplare vuol dire essere invasi dalla gioia di scoprire che il suo è uno sguardo di tenerezza, di bontà e di compiacimento per il solo fatto che siamo sue creature, amate da sempre e per sempre dal suo cuore tanto più grande del nostro, al di là delle povertà che ancora abitano la nostra fragile esperienza. E percepire che questo sguardo di Colui che ci ha creati e redenti è come olio che allevia e guarisce la ferita presente nel cuore di ognuno.
Poiché tu mi ami così come sono, anch’io posso amarmi e trovare in Te la forza per cambiare.
Poiché Tu, amante della vita, ami ognuna delle tue creature, posso amarle anch’io, cominciando dai fratelli e dalle sorelle che mi hai posto accanto. E’ il tuo amore che ha il potere di rendermi tutto amabile: me stesso, gli altri, il creato ed anche tutto ciò che mi è chiesto di fare nella vita semplice d’ogni giorni. E mi ricorderò che “con gli altri non saremo mai troppo dolci e troppo buoni nel nostro modo di fare: la dolcezza è la prima delle forze, e forse la prima delle virtù” (P. Teilhard de Chardin). In ogni caso, è la via più efficace per migliorare ad un tempo me e il mio ambiente.
Ed è illuminante notare come non vi sia contraddizione tra coscienza della propria pochezza e grande fiducia nel Signore. Francesco ne è, ancora una volta, un esempio altissimo, quando passa tanta parte della sua preghiera a ripetere: “Chi sei Tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo?” (FF 1915). Lui sa di essere piccolo e insignificante, ma sa pure di appartenere ad un dolcissimo Iddio (“sono servo tuo!”)... e questo è ciò che gli dà solidità e forza per crescere nella sequela del suo Signore: sempre più consapevole di essere amato in modo del tutto gratuito, è reso capace di rispondere a tale amore con la passione dell’innamorato ricolmo di gratitudine.
Alla scuola di Francesco, potrò anch’io riconoscere onestamente che il mio vero tesoro è l’amore che Dio ha per me in Gesù Cristo, e non il mio amore per Lui, che si riduce sempre a molto poco...
E allora non troverò più fastidioso, ma semplice e salutare portare nella preghiera, con gli aspetti positivi, anche i lati oscuri della mia vita: la gioia e la tristezza, l’entusiasmo e l’avvilimento nel cammino, la vittoria della grazia ed il mio peccato, la generosità e la pigrizia, la premurosa attenzione e l’indifferenza verso i fratelli...
E sarò finalmente consapevole che “la santità non è tanto uno sport in cui trionfano gli eroi, ma un’avventura di misericordia in cui i piccoli e gli umili sono colmati di doni; e ciò che conta è la convinzione, gioiosamente accettata, di una profonda miseria che la misericordia del Signore Gesù salva continuamente” (G. Huighe).
Applicando al campo spirituale le indicazioni sul nuovo ed efficace metodo di curare le ferite esponendole al sole, scoperto dal grande chirurgo reggiano Cesare Magati (1577-1647), divenuto in seguito cappuccino col nome di Liberato da Scandiano, posso senza timore esporre anch’io al sole del Suo amore le mie povertà, inserendomi nel folto numero dei malati del Vangelo (Mt. 9,12 e Lc. 19,10) per riconoscere che Lui, e Lui solo, è il Medico di cui ho assoluto bisogno. E gli dirò:
In questo nuovo giorno amami Tu, Signore.
Anche se non sono amabile,
anche se sono povero e Ti amo poco,
anche se non lo merito,
amami Tu, Signore.
Quando non ho voglia di amarTi,
quando ho paura di Te e fuggo,
quando nessuno mi ama,
amami Tu Signore.
E correrò come Giovanni;
mi volterò verso di Te come Maria Maddalena;
brucerà anche il mio cuore come ai due di Emmaus…
Amami Tu, Signore, e ogni giorno sarà Pasqua anche per me!
CONCLUSIONE
Imparare a pregare significa imparare a lasciarsi amare
Se la preghiera personale di cui abbiamo parlato - lo ripetiamo ancora una volta - «è un intrattenersi per un certo tempo in compagnia di Colui dal quale sappiamo di essere amati» (santa Teresa d’Avila), allora si tratta di imparare a stare lì, sotto lo sguardo di quel Dio il cui volto si è rivelato pienamente a noi nel Cristo crocefisso, dal cui cuore squarciato è sgorgato il fiume dell’amore che ci fa vivere! Stare lì, lasciarsi raggiungere da quello sguardo, non fuggire da esso né per fare cose che ci sembrano più importanti, né perché ci consideriamo indegni di essere amati da Lui, e quindi sempre incapaci di “credere” a quella “incredibile” bella notizia che è appunto il “Vangelo” (= siamo amati da sempre e incondizionatamente nel Figlio amatissimo). Stare lì, e dirgli con Francesco: «Tu sei il mio Dio e il mio tutto! Tu sei il bene, ogni bene, il sommo bene, il Signore Dio vivo e vero… Tu sei bellezza, Tu sei la pace… Tu sei tutta la nostra ricchezza…».
Ma come abbiamo detto più volte, non è facile “reggere” lo sguardo del Signore e vincere la spinta istintiva a nasconderci come Adamo che - accortosi di essere nudo, ossia povero e limitato -tenta inutilmente di sottrarsi a quello sguardo e si sente chiamare: «Adamo, dove sei?» (Gen 3,9).
Per riuscirvi occorre aver incontrato il vero volto del vero Dio, quello che emerge dal Vangelo, ed esserci liberati almeno un poco dalle contraffazioni che di Lui si sono depositate nella nostra mente e nel nostro cuore. Il grande ostacolo è che tendiamo a confondere i criteri che reggono le relazioni umane con quelli che reggono il rapporto col Signore. Quali criteri?
“Ti amo (ossia: ti stimo, ti apprezzo, ti considero un bene prezioso…) se lo meriti, se sei bravo, se sei degno di ricevere il mio amore”: è questo il ritornello che abbiamo sentito ripetere sin dalla prima infanzia. Tutti ce ne siamo nutriti. Ci è penetrato nella mente e nel cuore come un veleno che tende ad inquinare di continuo il nostro rapporto col Signore. Sì, tutti noi abbiamo una istintiva, atavica paura del Signore, la stessa paura che l’animale selvatico ha dell’uomo. E la preghiera silenziosa può essere allora paragonata ad un’opera di addomesticamento: come la volpe con il Piccolo Principe[46], perché anche il nostro cuore deve imparare a lasciarsi avvicinare gradualmente dal Signore. Piano piano il suo Volto deve cessare di farci paura e divenire un Volto amabile, rassicurante, che ci comprende, ci incoraggia, che ha sempre fiducia di noi e ci sprona a mantenerci o a rimetterci in cammino.
Pregare significa imparare a lasciare che la Buona notizia dell’amore che Dio ha manifestato per noi in Cristo Gesù si radichi nella nostra mente fino a pervaderla tutta, così da divenire una verità indiscussa e indiscutibile, sapendo che non l’evidenza dei nostri sensi e delle nostre emozioni, ma la certezza della Sua Parola ne sono il fondamento. Questa certezza è per la nostra mente come una luce che illumina di significato e di valore tutta la realtà, vista e interpretata ormai solo alla luce della Pasqua del Signore Crocefisso e Risorto. Questo è quel rinnovamento della mente che san Paolo chiedeva un tempo ai Romani e chiede oggi anche a noi (Rm 12, 2): una mente illuminata dal Vangelo, che prende sempre più le distanze dalla logica del mondo e dai suoi criteri di valutazione, oggi proposti con inedita forza. Compito della nostra mente è poi quello - delicato e paziente - di far giungere questa certezza evangelica al nostro cuore, poiché se la mente può essere convinta dalla logica del ragionamento coerente che deriva da una fede nel Risorto ben fondata sulle coordinate del tempo e dello spazio (e tali sono le solide fondamenta della fede cristiana!), il cuore parla un altro linguaggio: non quello del puro ragionare, ma quello del sentire, ossia quello dell’esperienza. Il cuore ha bisogno di “familiarizzarsi” con questa presenza del Signore, perché istintivamente percepisce il mondo divino come qualcosa di fascinosum et tremendum, che non può essere avvicinato incautamente e che suscita timore e tremore.
Vincere questa idea, questa immagine di Dio è un’impresa ardua per noi; anzi, impossibile. Solo accogliendo il dono dello Spirito, noi veniamo introdotti in una più autentica esperienza di fede, passando dalla paura dello schiavo alla confidenza/parresia del figlio che in Cristo Gesù ha conosciuto la buona notizia di essere anch’egli un figlio amato dal Padre.
Molte sono le resistenze del nostro cuore. Vincerle, come ho accennato, è qualcosa di simile a ciò che si mette in atto per addomesticare gli animali selvatici. A questo proposito mi viene spontaneo accennare qui a ciò che vedo fare da un mio caro fratello. Si chiama Rainero e da ormai trent’anni divide il suo tempo tra il lavoro come artigiano e il domatore di cavalli, passando agevolmente dall’officina alla grande stalla e agli spazi attigui ove tiene oltre venti cavalli. Quella che egli pratica è chiamata “doma dolce”, che si differenzia dalla “doma dura”, la più diffusa, con cui i cavalli vengono sottomessi con la durezza del trattamento per ottenere la docilità prodotta dalla paura del padrone. La “dome dolce” si prefigge invece di giungere ad ottenere la collaborazione obbediente dell’animale creando un rapporto di fiducia che gli consenta di superare l’istintiva paura dell’uomo. Là vi è un cavallo che sta sottomesso per paura delle botte che ha già ricevuto; qui ve n’è uno che obbedisce perché conquistato dalla fiducia di chi gli si è avvicinato con rispetto. Ed è bello vedere come mio fratello porta avanti con pazienza e determinazione questa “doma dolce” con cavalli di ogni tipo, dai puledri agli adulti già segnati da un rapporto violento e sofferto con l’uomo. Ed è una meraviglia scoprire che i cavalli così domati sanno poi familiarizzare con bambini, ragazzi e adulti senza alcun problema.
La “doma dolce” praticata da mio fratello mi richiama il modo con cui il Signore cerca di vincere la nostra paura avvicinandosi a noi gradualmente per renderci familiare la sua presenza. Ma la nostra diffidenza nei suoi confronti è assai più grande di quella che il cavallo ha dell’uomo. Non a caso, per addomesticare il nostro cuore, il Signore ha bisogno di un tempo assai più lungo. Eppure il suo unico, grande, divino desiderio è vincere le nostre resistenze affinché ci lasciamo avvicinare da Lui conquistati dal suo amore: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Sì, inoltrarci nella preghiera contemplativa vuol dire lasciarci addomesticare, ossia lasciare che il Signore si avvicini a noi e ci “con-vinca” [47] che Lui ci ama, che noi siamo preziosi per Lui, e che anche il Padre ci vede ormai solo in quel Figlio che gli basta sempre e in tutto e per il quale ha fatto e fa a noi cose tanto grandi (San Francesco). La luce dell’amore che la Pasqua del Signore Gesù ha gettato sul volto di ciascuno di noi fa sì che il Padre non sappia più vederci che inondati da quella luce, resi ormai per sempre meravigliosamente “suoi” (“Il Signore si compiacerà di te… sarai una magnifica corona nella palma del tuo Dio”: Is 62, 1-5).
Si tratta allora di fare spazio al dono pasquale dello Spirito che infonde e fa crescere la capacità di credere fermamente che da sempre siamo amati da Dio in Cristo Gesù, amati così come siamo, resi amabili proprio perché amati. Credere con san Paolo che «nulla e nessuno può ormai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù» (Rm 8,35). Questo è il cuore del Vangelo, ed è la più bella notizia che la storia ha udito. Così bella da sembrare troppo bella per essere vera. Non per nulla per essere accolta e creduta richiede una profonda conversione: «Il Regno dei cieli è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo», dice a noi il Signore Gesù; e vuol dire “convertitevi credendo al Vangelo”, ossia: “liberatevi dai vostri idoli, quelli che vi si sono annidati nella mente e radicati nel cuore, e accogliete l’invito ad entrare nel Regno del solo vero Dio, quello che vedete in me”.
Questa è la notizia veramente bella che - sola - ha il potere di renderci liberi: «Se rimanete nella mia parola, siete realmente miei discepoli, conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi» (Gv 8:31,32). Infatti, è la sola che ci guarisce dalla paura di essere brutti/non graditi/rifiutati… una paura che paralizza il nostro cuore e ci rende incapaci di amare. Amati noi per primi e sempre da un amore che è misericordia (ossia: comprensione, perdono, eros e agape della madre per i suoi figli; le viscere di pietà del nostro Dio che abbiamo conosciuto in Cristo Gesù), dallo Spirito che è stato effuso in noi siamo resi via via capaci di amare a nostra volta come sappiamo di essere amati dal Signore.
La sfida più grande, il nodo più duro da sciogliere rimane sempre questo: accogliere con la mente nutrita dalla Parola che lo sguardo del Signore su di me non è come quello dei miei genitori/educatori, ma è uno sguardo radicalmente diverso; esso è totalmente e solo uno sguardo di tenerezza, di amore incondizionato. Anche a noi sono riferite le parole dette dal Padre al Figlio nel Giordano e al Tabor: «Tu sei il mio Figlio amato. In te io mi sono compiaciuto» (Lc 9,35). Nella preghiera silenziosa lascio che questa “luce della mente” scenda nel cuore e lo riscaldi, lo rassicuri e gli consenta di sedersi/riposarsi finalmente ai piedi del Signore[48].
La solida roccia su cui si fonda la nostra vera grandezza, la nostra indistruttibile dignità è proprio credere a questo incredibile “vangelo”: nel Figlio suo amatissimo, anche noi siamo amati da Dio! E quando nel Padre nostro diciamo di “non abbandonarci nella tentazione”, chiediamo che non attecchisca in noi il dubbio sulla fedeltà del Suo amore quando la vita ci delude, ci tradisce e ci spoglia.
Nella sobria e densa preghiera che ha posto al termine della Lettera a tutto l’Ordine (FF 233) Francesco ci offre una limpida descrizione di un discepolato maturo. Credo sia bello riportarla qui, a conclusione del nostro tentativo di descrivere “una via francescana alla contemplazione”.
«Onnipotente, eterno, giusto e misericordioso Iddio, concedi a noi miseri di fare, sospinti dalla forza del tuo amore, ciò che sappiamo che tu vuoi, e di volere sempre ciò che a te piace, affinché, interiormente purificati, interiormente illuminati e accesi dal fuoco dello Spirito Santo, possiamo seguire le orme del tuo Figlio diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e con l'aiuto della tua sola grazia giungere a te, o Altissimo, che nella Trinità perfetta e nella Unità semplice vivi e regni glorioso, Dio onnipotente, per tutti i secoli dei secoli. Amen».
In poche parole Francesco riassume i dati essenziali di un autentico cammino di conversione. Nessun sforzo titanico, nessun volontarismo teso a guadagnare un amore che sempre ci previene e di cui lo Spirito ci rende via via consapevoli.
«In nessun altro testo il Santo ha condensato in una sintesi così vigorosa tanta dottrina. Egli ci dice la necessità della grazia, c’insegna che la santità è compimento della volontà di Dio in un cammino che porta l'uomo a Dio nell’imitazione e unione con Cristo, resa possibile dall'azione dello Spirito che illumina e infiamma l’uomo. E la luce è certo la fede, come il fuoco che lo Spirito accende è l’amore»[49].
Da quando il Mistero di Dio si è fatto conoscere a noi nel Volto umano del Figlio di Maria, la strada della contemplazione è aperta ad ogni figlio d’uomo. Inoltrarci in essa significa aprirci ad una esperienza di pace profonda: quella che il Signore ha promesso di donare a chi lo cerca con fedeltà e umiltà (Gv 14, 27). Ed è la sola pace di cui il cuore dell’uomo conserva sempre una indelebile nostalgia, dal momento che, come ci ricorda il grande Agostino, «ci hai creati per Te, Signore, e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in Te» (Confessioni, 1, 1).
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Alcuni suggerimenti pratici
Se contemplare significa gustare la dolcezza di stare sotto lo sguardo di Colui che ci ama e sentir crescere l’esigenza di rispondere al suo amore facendolo passare sui fratelli che ci camminano accanto, per procedere in questa forma di preghiera ci è richiesta una reale disponibilità a lasciare che lo Spirito operi in noi una “interiore purificazione” come opzione fondamentale di chiusura al male. Alcuni atteggiamenti rendono impraticabile un cammino contemplativo autentico, perché ci impediscono di “gustare le cose del Regno”. Ne accenno tre:
Ø il disprezzo dei poveri e la chiusura del cuore nei loro confronti;
Ø il coltivare rancori contro chi ci ha “pestato i piedi” (dico “coltivare”, ossia “fomentare, accarezzare” il rancore, che è diverso dall’essere dispiaciuti e provare anche un po’ rabbia);
Ø aprire la mente alla sporcizia oggi così diffusa della pornografia, che inquina la mente e suscita il disagio/timore del cuore: è la coscienza che, rimproverando le scelte della mente, alimenta poi nel cuore la paura di Dio[50].
Sono tre ostacoli di cui occorre prendere coscienza e con onestà tenersene lontani.
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Vediamo ora alcuni suggerimenti semplici e pratici che possono esserci di aiuto nel cammino irto ma affascinante della contemplazione.
1. Pregare è un’arte: non ci si improvvisa “persone di preghiera”, ma come in ogni arte si impara anche qui con umile perseveranza.
2. A pregare si impara pregando, come a nuotare si impara nuotando. Occorre impegnarsi con costanza e regolarità, senza pretendere di vedere risultati rapidi. Pregare infatti è un gesto povero: sembra di sprecare tempo. Spesso fatichiamo a pregare perché non siamo poveri e non sopportiamo la povertà della preghiera. Siamo abituati alla rapidità e all’efficienza, ma non valgono nella vita interiore, ove si fanno passi e non salti
3. Più si prega e più si sente il bisogno di pregare, meno si prega e meno si desidera pregare: in questo campo succede il contrario di quanto avviene del cibo per il corpo.
4. Nelle prime tappe, il Signore lascia a noi l’iniziativa di cercare i mezzi e gli aiuti che riteniamo più opportuni ed utili per noi, come se tutto dipendesse dal nostro impegno soltanto. Solo più avanti Egli prende progressivamente l’iniziativa per sospingerci sempre più al compimento della sua volontà e all’abbandono fiducioso e filiale.
5. I primi passi sono perciò difficili e un po’ complicati: come un bambino che comincia a camminare, l’anima ha bisogno di reperire strumenti ed appoggi.
Risultano importanti allora alcuni elementi concreti: trovare il luogo più adatto; scegliere il tempo più opportuno (e che sia di una certa durata: il meglio è sui 30 minuti!); cercare una posizione che consenta al corpo di “fare la sua parte” senza essere d’inciampo; avvalersi di una icona del Signore che sia significativa per noi e tenerla davanti; procurarsi le letture della Messa del giorno; imparare a “gestire” con umiltà le distrazioni senza innervosirsi e talora “valorizzandole” quali possibili indicatrici degli orientamenti del nostro cuore...
6. Per chi desidera uno schema da seguire, quello della Messa - che è il vertice, la fonte ed anche il paradigma di ogni preghiera nella Chiesa - rimane valido anche per la preghiera personale:
riti iniziali e atto penitenziale = silenzio - invocazione dello Spirito e della Vergine Maria, perché sorreggano la nostra preghiera - umile riconoscimento del nostro peccato;
liturgia della Parola = letture della Messa del giorno, con applicazione alla propria vita;
preghiera dei fedeli = richiesta di aiuto per vivere la Parola e per altre necessità;
preghiera eucaristica = lode, benedizione, ringraziamento...; Padre nostro conclusivo.
7. Per quanto possibile, curare sia la preparazione remota alla preghiera (non essere dissipati durante la giornata, controllare i pensieri e le fantasie, utilizzare la preghiera del Nome o quelle “aspirazioni” così familiari nella tradizione francescana per conservare viva in noi la “Jesu dulcis memoria”); sia la preparazione prossima (non “buttarsi” nella preghiera senza aver fatto uno stacco di raccoglimento, e predisporre per quanto possibile gli strumenti che si useranno).
8. Portare la vita nella preghiera e la preghiera nella vita, evitando le speculazioni astratte e le fantasie spirituali. Spalancare il cuore per accogliere il suo Amore, liberi dalla paura. Quando c'è aridità, leggere lentamente e “ruminare” qualche salmo o un brano della Sacra Scrittura.
9. Saper attendere con pazienza il Signore e la gioia che Egli porta con sé, senza nutrire pretese d’alcun genere: stiamo in sua compagnia in primo luogo per fare piacere a Lui e non per una nostra gratificazione. Non dobbiamo cercare le consolazioni di Dio, ma il Dio di ogni consolazione (2 Cor. 1,3); e il suo silenzio ha lo scopo di purificare ed accrescere il nostro desiderio di Lui[51].
10. Perdersi dolcemente nella contemplazione del volto del Signore e del suo amore gratuito e fedele (Tu sei santo...Tu sei forte, Tu sei..., Tu sei…: Lodi a Dio di S. Francesco, in FF 261). Riposare sul cuore di Gesù "come un bambino in braccio a sua madre" (Sal.130). Lasciarsi guardare da Lui, restare sotto il suo sguardo colmo di tenerezza, e portare in Lui tutta la nostra vita, anche la nostra realtà povera.
Ma il più bel consiglio su come impostare il tempo dell’orazione mentale ce lo offre ancora una volta J. Philippe: un consiglio prezioso perché, nel suo franco realismo, ci mantiene nell’umiltà e ci esorta a non scoraggiarci, perché ci togli le illusioni di poter “toccare il cielo con un dito”. Egli scrive:
“Come gestire concretamente il tempo che abbiamo stabilito di dedicare alla preghiera contemplativa? Due semplici osservazioni:
Bisogna curare bene l’inizio, curare bene la fine, e fra i due si fa quel che si può!
Ciò che conta è mettersi veramente alla presenza di Dio…
L’atto di mettersi alla presenza di Dio all’inizio della preghiera sarà facilitato spesso da alcune pratiche abituali, un piccolo “rito” che ci siamo dati e con cui iniziamo il tempo dell’orazione: l’accensione di una candela davanti a un’icona, una prostrazione, un’invocazione allo Spirito Santo, la recita di un salmo che amiamo, una preghiera alla Vergine Maria per affidarle questo momento di preghiera… Secondo ciò che Dio ispira a ciascuno e che possa aiutarlo…
(Sulla fine della preghiera) Il primo consiglio da dare è quello di osservare fedelmente tutto il tempo che abbiamo deciso di dedicare a questa preghiera. Per esempio, se ho deciso di prendermi una mezz’ora di orazione tutti i giorni, non devo abbreviare questo tempo. Tranne, evidentemente, un caso eccezionale di grande stanchezza o un’emergenza della carità… Altro consiglio: non bisogna andarsene scontenti dalla preghiera. Anche se é stata difficile, anche se ho la sensazione di non aver fatto niente di buono perché non ho sentito niente, ero distratto in continuazione, mi sono addormentato, eccetera, bisogna andarsene contenti. Ho passato un momento con il Signore, questo basta. Non ho fatto niente dal canto mio, ma lui ha certamente fatto qualcosa in me e, in un atto di umiltà e di fede, lo ringrazio per questo. Qualunque sia stata la mia preghiera, l’ultima parola deve essere sempre il ringraziamento. E vedrò a poco a poco che non mi sbaglio agendo cosi…[52]
Questi, a mio avviso, sono gli “ingredienti” sostanziali per una preghiera autentica.
Se sapremo lasciarci guidare umilmente dallo Spirito, protagonista e solo maestro di ogni preghiera autentica, ciascuno giungerà progressivamente alla scoperta del “suo” modo di stare alla presenza del Signore. Lo Spirito Santo, insieme a Maria, va sempre invocato all’inizio di ogni tempo di preghiera[53].
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Bibliografia essenziale
1. R. Voillaume, Pregare per vivere, Cittadella, Assisi 1974.
2. A. Seve, Trenta minuti per Dio, Città Nuova, Roma 1978.
3. I. Larrañaga, Mostrami il tuo volto, Paoline, Milano 1986.
4. Congreg. Dottrina della Fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana, Roma 1989.
5. A. Louf, Sotto la guida dello Spirito, Qiqajon, Magnano 1990.
6. L. Lehmann, La preghiera francescana, EDB, 1999.
7. D. BARSOTTI, San Francesco preghiera vivente, San Paolo, Milano 2008.
8. J.-M. Gueullette, La preghiera silenziosa. Stare alla Presenza, Paoline, Milano 2012.
9. J. M. Recondo, Il cammino della preghiera in René Voillaume, EDB, 2014
10. J. Philippe, Imparare a pregare per imparare ad amare, Gribaudi, Torino 2014.
[1] “Certo alla preghiera sono in particolare chiamati quei fedeli che hanno avuto il dono della vocazione ad una vita di speciale consacrazione: questa li rende, per sua natura, più disponibili all'esperienza contemplativa, ed è importante che essi la coltivino con generoso impegno. Ma ci si sbaglierebbe a pensare che i comuni cristiani si possano accontentare di una preghiera superficiale, incapace di riempire la loro vita. Specie di fronte alle numerose prove che il mondo d'oggi pone alla fede, essi sarebbero non solo cristiani mediocri, ma “cristiani a rischio”. Correrebbero, infatti, il rischio insidioso di veder progressivamente affievolita la loro fede, e magari finirebbero per cedere al fascino di “surrogati”, accogliendo proposte religiose alternative e indulgendo persino alle forme stravaganti della superstizione” (n. 34; ma si vedano anche i nn. 32 e 33).
[2]“Il XXI secolo o sarà mistico o non sarà” (A. Malraux). Lo stesso pensiero è condiviso da K. Rahner quando scrive : “Si potrebbe dire che il cristiano del futuro o sarà un mistico - cioè una persona che ha ‘sperimentato’ qualcosa - o non sarà neppure cristiano. Perché la spiritualità del futuro non si poggia più su una convinzione unanime, evidente e pubblica, e nemmeno su un ambiente religioso generalizzato… Per essere in grado di mantenere una relazione reale con Dio… ed anche per avere il coraggio di accettare questa manifestazione silenziosa di Dio come il vero mistero della propria esistenza, non basta un atteggiamento razionale dinanzi al problema teorico di Dio e nemmeno basta un’accettazione puramente dottrinale della dottrina cristiana, ma occorre una autentica esperienza di Dio, che sgorga dal centro dell’esistenza”: K. RAHNER, Nuovi saggi, Paoline, Roma 1968, p. 24.
[3] Per un’ulteriore analisi delle ragioni per cui ci è difficile pregare, cfr. il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2725-2751, ove l’art. 2 ha per titolo Il combattimento della preghiera.
[4] Cf. alcune delle acute considerazioni sulla preghiera come luogo del tedio e dello scoramento si trovano in S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di Luca, Dehoniane, Bologna 1997:
“La preghiera è il luogo del tedio e dello scoramento. Sembra tempo perso! È un puro desiderio, povero e in grado di fare nulla. Proprio in questa nullità raggiunge il suo fine: attendere il tutto. Ma il vuoto si riempie subito dei fantasmi e delle paure del cuore, che fanno uno spesso muro tra noi e Dio. Il nostro peccato, assenza e lontananza da lui, si evidenzia nella preghiera più che altrove… l’immagine che l’uomo ha di Dio… è come uno schermo bianco su cui proiettiamo ogni nostra cattiva immagine. Infatti noi, che siamo cattivi, pensiamo che ci doni ciò che ci meritiamo: pietre, serpenti e scorpioni, invece di pane, pesce e uova (Lc, 9-13)”: p. 596.
“Il figlio (minore) ‘rientrato in se stesso’ costata che è servo del peccato; quando andrà al Padre vedrà di essere figlio. La conversione non è diventare ‘degni’ o almeno ‘migliori’ o ‘passabili’ per meritare la grazia di Dio: l’amore meritato è meretricio. La conversione vera è accettare Dio come un padre che ama gratuitamente…
L’immagine di un Dio cattivo è una menzogna esiziale. Non lascia altra alternativa che la ribellione che fa morire o il servilismo che uccide. Scompare solo nell’incontro con la tenerezza materna del Padre” : p. 549s.
[5] Congregazione per la Dottrina della fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana. Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, Roma 15.X.1989, n. 7.
[6] Si vedano le molte belle considerazioni di J. PHILIPPE, Imparare a pregare per imparare ad amare, Gribaudi, Milano 2014, pp. 20-27.
[7] E’ la parresia di cui ci parla Paolo e che è propria di chi, col dono dello Spirito, ex auditu ha conosciuto e in corde ha accolto la stupenda “buona notizia” di essere figli amati nel Figlio Unigenito: Rom 8,15s; Gal 4,5-7; 2 Cor 3,12.17.
[8] Si vedano a titolo d’esempio: P. Sequeri, Il Timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 2010; H. Fischer, Era necessario che Gesù morisse per noi? Interpretazioni sulla morte di Gesù, Claudiana, Torino 2012; S. Mc Knight, Gesù e la sua morte. Storiografia, Gesù storico e idea dell’espiazione, Paideia, Brescia 2015; e le puntuali sintetiche considerazioni offerte da P. Maranesi, Figure del male. Questioni aperte sul “Diabolo”, Cittadella, Assisi 2017, pp. 227-246.
[9] «La Parola della Croce rivela un “assurdo”. La Croce è l’enigma con cui Dio risponde all’enigma dell’uomo. Un Dio crocifisso non corrisponde a nessuna concezione religiosa o atea. È una rappresentazione “oscena”: fuori della scena del nostro immaginario. È la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e l’idolo. Eppure, per il cristiano, da essa parte e ad essa porta ogni promessa divina… L’incarnazione ha mostrato Dio nella storia, ma anche ne nascondeva la natura sub velamine carnis. Ora la croce (= carne crocifissa) svela ciò che mai era stato in scena. Aveva proibito di farsi immagini di Lui perché voleva dare in prima persona questa rappresentazione di sé (che mai venne in cuore d’uomo), l’unica che manifesti la realtà di cui siamo immagine e somiglianza» (S. Fausti, L’Idiozia: debolezza di Dio e salvezza dell’uomo, Ancora, Milano 1999, pp. 14s.).
[10] «Se Gesù avesse dovuto portare il peccato di tutti davanti a Dio, quale immagine avremmo di Dio? Quella di un Dio di verità che si sbaglia radicalmente sulla verità di Gesù; quella di un Dio di giustizia che imputa il peccato a chi non l’ha commesso; quella di un Dio-Padre di Gesù, di un Dio-amore che metterebbe al di sopra della sua paternità e del suo amore una giustizia che, per essere soddisfatta, esigerebbe le sofferenze di un innocente. Questo è stato definito “un Dio perverso”, contrario a quello che l’uomo nelle sue più alte aspirazioni desidera che Dio sia»: F. X. Durwell, La morte del Figlio. Il mistero di Gesù e dell’uomo, Domenicana Italiana, Napoli 2007, p. 99.
[11] «Gesù Cristo ha salvato il mondo non perché ha placato Dio, ripagandolo da una ingiustizia da Lui subita all’inizio da parte della libertà peccaminosa dell’uomo…, ma perché con la sua vicenda umana, fatta di dono e offerta per amore, ha dato compimento al processo evolutivo della comunione del mondo intero con Dio. Mostrando quale sia il senso della storia, lo ha in se stesso realizzato!... La storia di Gesù porta a compimento la volontà di Dio nascosta nei secoli: di ricapitolare in Lui ogni cosa così che la creazione intera partecipi definitivamente al pleroma di Dio che è il sistema simbolico trinitario dell’amore, quando egli finalmente sarà ‘tutto in tutti’ (cf. 1 Cor 15, 28)… Cristo è la grazia di Dio… Egli è la comunione del mondo con Dio riconosciuto e incontrato come Padre, e in questo senso è il Salvatore del mondo»: P. MARANESI, Figure del male…, pp. 310s.
Un contributo fondamentale al superamento della spiritualità giansenista è stato offerto alla Chiesa da alcune sante donne vissute tra il XVIII e il XX secolo, e in forma eccelsa da Teresa di Lisieux, che nel 1997 ha ricevuto il titolo di Dottore della Chiesa proprio per aver recuperato direttamente dal Vangelo e proposto poi negli scritti autobiografici la sua “piccola via”.
[12] Benedetto XVI, San Paolo (10). L’importanza della cristologia: la teologia della Croce, Catechesi all’Udienza del 29 ottobre 2008, ora anche in San Paolo, l’Apostolo delle genti, Libreria Editrice Vaticana/San Paolo, Roma e Milano 2009, pp. 73-78. «Nell’atto della croce si è prodotta un’alchimia misteriosa: Gesù ha cambiato un’opera di morte in un’opera di vita. La manifestazione più odiosa del peccato degli uomini diventa la rivelazione più pura di Dio. Colui che ha donato la propria vita liberamente, dona la vita… Poiché la vittoria di Gesù nella sua morte è la vittoria di una libertà amante su delle libertà peccatrici»: B. Sesboüè, Gesù Cristo l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza, Paoline, Roma 1990, pp. 193s.
[13] Nella catechesi sulla figura di sant’Antonio di Padova, papa Benedetto XVI ha fatto un bel richiamo alla necessità di contemplare il crocifisso: «Scrive sant’Antonio: “Cristo, che è la tua vita, sta appeso davanti a te, perché tu guardi nella croce come in uno specchio. Lì potrai conoscere quanto mortali furono le tue ferite, che nessuna medicina avrebbe potuto sanare, se non quella del sangue del Figlio di Dio. Se guarderai bene, potrai renderti conto di quanto grandi siano la tua dignità umana e il tuo valore... In nessun altro luogo l’uomo può meglio rendersi conto di quanto egli valga, che guardandosi nello specchio della croce” (Sermones Dominicales et Festivi III, pp. 213-214). Meditando queste parole possiamo capire meglio l’importanza dell’immagine del Crocifisso per la nostra cultura, per il nostro umanesimo nato dalla fede cristiana. Proprio guardando il Crocifisso vediamo, come dice sant’Antonio, quanto grande è la dignità umana e il valore dell’uomo. In nessun altro punto si può capire quanto valga l’uomo, proprio perché Dio ci rende così importanti, ci vede così importanti, da essere, per Lui, degni della sua sofferenza; così tutta la dignità umana appare nello specchio del Crocifisso e lo sguardo verso di Lui è sempre fonte del riconoscimento della dignità umana»: Benedetto XVI, Udienza generale, 10 febbraio 2010, in I Maestri Domenicani e Francescani, Libreria Editrice Vaticana, 2010, p. 45.
[14] Sull’importanza di coltivare una grata memoria del bene che il Signore ha già depositato lungo il corso della nostra vita si è soffermato Papa Francesco il 2 marzo 2017 parlando al Clero di Roma. Egli ha detto tra l’altro: “In Evangelii gaudium ho voluto porre in rilievo quella dimensione della fede che chiamo deuteronomica, in analogia con la memoria di Israele: «La gioia evangelizzatrice brilla sempre sullo sfondo della memoria grata: è una grazia che abbiamo bisogno di chiedere. Gli Apostoli mai dimenticarono il momento in cui Gesù toccò loro il cuore: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,39)» (n. 13). Nella moltitudine di testimoni… si distinguono alcune persone che hanno inciso in modo speciale per far germogliare la nostra gioia credente: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunciato la Parola di Dio” (Eb 13,7). E’ molto importante andare indietro e cercare le radici della nostra fede. A volte si tratta di persone semplici e vicine che ci hanno iniziato alla vita della fede… Il credente è fondamentalmente uno che fa memoria… Non si può credere senza memoria. La fede si alimenta e si nutre della memoria. La memoria dell’Alleanza che il Signore ha fatto con noi: Egli è il Dio dei nostri padri e nonni… Progredire nella fede… è anche esercizio di ritornare con la memoria alle grazie fondamentali… andando a cercare nuovamente tesori ed esperienze che erano dimenticati e che molte volte contengono le chiavi per comprendere il presente. Questa è la cosa veramente “rivoluzionaria”: andare alle radici. Quanto più lucida è la memoria del passato, tanto più chiaro si apre il futuro, perché si può vedere la strada realmente nuova e distinguerla dalle strade già percorse che non hanno portato da nessuna parte. La fede cresce ricordando, collegando le cose con la storia reale vissuta dai nostri padri e da tutto il popolo di Dio, da tutta la Chiesa”.
[15] C.S. LEWIS, I quattro amori, Jaka Book, Milano 1990, p.44.
[16] Esemplare in tal senso la rilettura fatta da Giuseppe della propria amarissima vicenda, in Gen. 45, 1-8; ed anche la sapiente considerazione del Manzoni sulla storia tormentata della Monaca di Monza, al cap. X de I Promessi sposi.
[17] C. MOLARI, Perché? in Consacrazione e servizio 5/1992, p.49.
“Dobbiamo riconciliarci con il nostro passato. Esso fa parte dell'argilla di cui siamo fatti. Tutto dipende da come lo guardiamo. Possiamo subirlo come una tragica fatalità o smentirlo per lanciarci ingenuamente verso un futuro che non conosce condizionamenti di sorta. Oppure, intravvedervi una trama che non è frutto del caso né di un cieco determinismo, ma di un progetto d'amore che si nasconde anche dietro a garbugli, rotture o errori. Assumere il proprio passato, ciò che si è vissuto, è un altro modo di dire il proprio nome… Nessuno può vantarsi di avere avuto un'infanzia perfetta e invidiabile. Le nostre prove hanno il peso che vi attribuiamo. Ho ascoltato gente lamentarsi tutta la vita di uno schiaffo ingiusto; mentre altri, che sono passati attraverso l’inferno della guerra, sono diventati poi costruttori di pace. Avremmo potuto avere molto di più di quello che abbiamo ora, ma anche molto meno. E cosa possediamo che non abbiamo ricevuto?, chiede Paolo ai Corinzi. Soltanto la memoria riconoscente può restituire alla nostra storia il suo vero senso. E solo il dono di noi stessi può trasformare una storia di morte in una storia di vita…”: così leggiamo nelle belle pagine dedicate a Il passato accettato in V. ISINGRINI, Anche di notte… il sole, San Paolo, Milano 2007, pp. 97-99
[18] Il tema della restitutio, così caro a Francesco, è trattato molto bene da C. VAIANI, La via di Francesco, Biblioteca Francescana, Milano 1997.
[19] Se molti riferimenti alla Preghiera del Nome si trovano nelle varie edizioni della Filocalia, è però nei Racconti di un Pellegrino russo che ne viene data la rilettura tipica dell’anima russa.
[20] Sull’importanza di avvicinarci al Signore con quella consapevolezza della nostra povertà che riscontriamo in modo esemplare nel pubblicano al tempio, si veda qualche buon commento alla parabola raccontata da Gesu’ (Lc. 18,9-14), ad esempio quello ottimo di S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB, Bologna 1994, pp. 599-603.
[21] Monumenta Historica Ordinis Capucinorum, VII, p. 264, n. 262.
[22] Il numero laterale rimanda alla monumentale opera in sei enormi volumi di C. Cargnoni (a cura di), I Frati Cappuccini. Documenti e testimonianze del primo secolo, EFI, Perugia 1991, Vol. I.
[23] Ivi, vol. III, Parte I.
[24] Di famiglia contadina del bergamasco e analfabeta, entrò tra i cappuccini nel 1580, svolgendo in gran parte il compito di questuante, insieme con gli altri servizi della casa (si definiva “lavatore di scodelle”). Dimorò in vari conventi della provincia veneta fino al 1619, anno in cui fu assegnato al convento di Innsbruck, dove rimase fino alla morte, nel 1631. Era persona di grande spiritualità e svolse un intenso apostolato tra la gente. Nel Tirolo era un vero trascinatore dei fedeli, ricercato come guida spirituale, catechista, sostegno spirituale e morale. Seguì la vita spirituale dell’imperatore d’Austria Ferdinando II, standogli accanto durante la guerra dei trent’anni (1618-1648); era amico e ricercato consigliere dei duchi di Baviera Massimiliano I ed Elisabetta e di altri principi, alcuni dei quali riportò alla fede cattolica.
[25] Una lettura interessante sull’attuale declino della preghiera contemplativa ci è offerta da G. Mucci, “È passata di moda la preghiera mentale?” in La Civiltà Cattolica I 2007, pp. 430-435, di cui riporto solo l’incipit: «Fino a cinquant’anni fa, e da secoli, la preghiera mentale era l'esercizio privato più praticato dai sacerdoti, dai religiosi e dalle religiose appena ferventi… Ma… si pratica ancora la preghiera mentale? Vogliamo dire: è sentita come un elemento portante di una seria vita interiore da coloro che hanno una vita spirituale? Non oseremmo affermare che oggi sia questa la convinzione più diffusa. Ci sembra piuttosto che, di fatto, ci si contenti della preghiera vocale, magari anche liturgica, e si ometta, soprattutto per la frenesia del fare quotidiano e delle mille distrazioni che la vita offre, l’approfondimento silenzioso degli stessi testi sui quali si recita la preghiera vocale. Non raramente la stessa liturgia, il momento più alto della preghiera cristiana e sacerdotale, è ridotta a essere soltanto recitata. E si disattende così una precisa volontà della Chiesa che ci educa a non esaurire la vita spirituale nella semplice partecipazione alla liturgia. Come è stato notato, ove manchi quella contemplazione permanente che è la preghiera, la liturgia corre il rischio di essere un rito freddo e noioso o uno spettacolo spiritualmente infruttuoso…».
[26] «Vedere come ha vissuto la preghiera san Francesco è un compito arduo. Si tratta del carisma del fondatore del francescanesimo. E’ ciò che l’Ordine francescano deve mantenere vivo nella Chiesa di Dio. L’Ordine francescano non potrebbe pretendere di avere una vita, anche oggi, e una missione nella Chiesa, se trascurasse o non credesse più necessario in essa questo carisma. La vita religiosa di Francesco dipende tutta dalla sua preghiera. Per altri santi possiamo forse dire che la preghiera è uno degli elementi della loro vita spirituale. Questo certamente non vale per Francesco. La preghiera è in Francesco la sorgente generatrice di tutta la sua vita. In altri la preghiera è un punto di arrivo; in lui, invece, è un punto di partenza. Perché se vi è un’anima in cui veramente la preghiera è stata tutto, questa è l’anima di Francesco… Tutti i suoi Scritti girano attorno all’argomento fondamentale, che è la preghiera»: D. BARSOTTI, San Francesco preghiera vivente. L’infinitamente piccolo davanti all’Infinitamente grande, San Paolo, Milano 2008 pp. 337s. In questo prezioso volume di 400 pp. curato da Giovanni Iammarrone sono raccolte le molte penetranti meditazioni che don Divo Barsotti, fine teologo e uno dei massimi “uomini spirituali” degli ultimi decenni, ha dedicato agli Scritti di Francesco.
[27] La contemplazione della Croce del Signore come mantice per tener vivo il fuoco dell’amore; l’intratto e l’estratto come il modo più proficuo di leggere testi spiritualmente ricchi soffermandosi su di essi per gustarli e assimilarne il contenuto; le aspirazioni, le giaculatorie e le preghiere furtive usate abitualmente dai santi frati; ma soprattutto la forza trascinatrice dell’esempio. Illuminante e pittoresco quanto si legge negli Atti del Processo di canonizzazione di san Felice da Cantalice (1515-1587), ove molti dei testimoni riferiscono che egli veniva letteralmente “spiato” di notte dai frati mentre in chiesa - credendo di esser solo - meditava piangendo la Passione del Signore e ripeteva più e più volte le stesse infuocate parole, come ad esempio: «Non ci era nessuno… Non ci era nessuno… Oh, Signor mio, quale abbandonamento è mai questo!» (cf. I Frati Cappuccini, vol. III, parte II, nn. 8166s; 8186. 8202s. 8233s).
[28] Soprannominato il Monaco lungo, Valeriano Magni (Milano 1587-Salisburgo 1661) è stato per più decenni delegato apostolico in Europa centrale. Ha svolto vari incarichi diplomatici per gli imperatori Ferdinando II, Ferdinando III e in Polonia con Ladislao IV; fu tra i primi a promuovere una riconciliazione fra le varie confessioni cristiane.
[29] In I Frati Cappuccini, Vol. I, n.1870.
[30] Cf. G. Bunge, Akedia, il male oscuro, Qiqajon, 1999, p. 80.
[31] Cf. le belle pagine su “L’ascesi di debolezza” in A. Louf, Sotto la guida dello Spirito, Qiqajon 1990, pp. 77-83; e anche M. Rondet, Dalla santità desiderata alla povertà offerta, in Temi dello Spirito 2007/173, pp. 240-246.
[32] H. U. VON BALTHASAR, La preghiera contemplativa, Jaca Book, Milano 1982, p.11.
[33] Cf. L. PADOVESE, In fraternità per cantare la penitenza, in Italia Francescana 59 (1984), pp.407-426 .
[34] E. BIANCHI-B. BAROFFIO, La preghiera fatica di ogni giorno, Piemme, Casal Monferrato
1983, pp.11-12.
[35] T. MERTON, L’uomo nuovo, Garzanti, Milano 1963, p. 83.
[36] Osservatore Romano, 21 novembre 2006, p. 2.
[37] S. Kierkegaard, Preghiere, Morcelliana, Brescia 1951, p. 17.
[38] Nel portale nord della cattedrale di Chartres, del secolo XIII, vi sono due emblematica sculture: da un lato vi è il Cristo che plasma il volto di Adamo ad immagine del proprio, e di fronte i due volti sono posti l’uno accanto all’altro, così da trasmettere il messaggio-chiave dell’antropologia cristiana: “Plasmati a Sua immagine, siamo chiamati alla somiglianza”.
[39] Si veda, solo per limitarci a qualche passo: Lc. 10, 20: “Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”; Gv.3, 16-17: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito...”; 1 Gv 4, 8-9: “ Dio è amore… in questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Egli ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui”; e il grande inno al vittorioso ed irreversibile amore che Dio ha manifestato agli uomini nel Cuore trafitto del suo Figlio che leggiamo in Rom.8, 35-39.: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?... Niente e nessuno ci potrà strappare da quell’amore che Dio ci ha rivelato in Cristo Gesù, nostro Signore!” di Rom.8, 35-39.
[40] Come sempre, S. Francesco sa scandagliare il nostro cuore per mettere in luce ciò che non è autentico. A questo riguardo, commentando la beatitudine sulla povertà di spirito, osserva: “Ci sono molti che, applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte astinenze e mortificazioni corporali, ma per una sola parola che sembri poco rispettosa verso la loro persona…, scandalizzati, subito si agitano e si offendono. Questi non sono poveri in spirito…”: Ammonizione III, FF 163.
[41] “E come potete credere voi - diceva Gesù agli Scribi e ai Farisei, e lo ripete anche a noi - che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene solo da Dio?” (Gv 5, 44). Gli fa eco San Francesco quando afferma che “un uomo vale tanto quanto vale davanti a Dio” (Ammonizione XIX, FF 169).
[42] “Per me, personalmente, la preghiera diventa sempre più un modo di ascoltare la benedizione. Ho letto e ho scritto molto sulla preghiera - confessa uno dei maggiori maestri di spirito del nostro tempo - ma quando mi ritiro in un luogo appartato per pregare, capisco che il vero ‘lavoro’ della preghiera è di farsi silenziosa e ascoltare la voce che dice cose buone di me. Questo può suonare come una sorta di autoindulgenza, ma in pratica è una disciplina dura… Non è facile entrare nel silenzio, passare oltre le molte voci chiassose e esigenti del nostro mondo e scoprire, nel silenzio, la piccola voce interiore che dice: ‘Tu sei il mio Amato Figlio, in te mi sono compiaciuto’. Ma se osiamo abbracciare la nostra solitudine e favorire il nostro silenzio, arriveremo a conoscere quella voce… A volte sentirai che nella tua preghiera non succede nulla. Tu dici: ‘Sono soltanto seduto qui e comincio a distrarmi’. Ma se ti addestri una mezz’ora al giorno ad ascoltare la voce dell'amore, scoprirai gradualmente che sta succedendo qualcosa di cui non eri ancora cosciente… La disciplina costante della preghiera ti rivela che tu sei il benedetto e ti dà il potere di benedire gli altri... Allora troviamo il coraggio di affrontare i nostri limiti e le nostre lacerazioni, che siano il nostro aspetto fisico, la nostra emarginazione, i nostri ricordi di maltrattamenti o abusi, il nostro essere stati vittime dell'altrui prevaricazione… E scopriamo che la gioia vera ha che fare con un 'esperienza profonda, l’esperienza di Cristo. Nel quieto ascolto della preghiera, impariamo a percepire la sua voce che dice: ‘Che gli altri ti amino o no, io ti amo. Tu sei mio. Edifica in me la tua casa, dimora in me, come io dimoro in te…»”: H. NOUWEN, Sentirsi amati. La vita spirituale in un mondo secolare, Queriniana, Brescia 1992, pp. 61-63.
[43] J. PHILIPPE, Imparare a pregare…, p. 27.
[44] Citato da L. PADOVESE, La speranza nei Padri, Piemme, Casale Monferrato 1984, pp. 62-63.
[45] All’Angelus di domenica 19 novembre 2017.
[46] «In quel momento apparve la volpe. “Buon giorno”, disse la volpe. “Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. “Sono qui”, disse la voce, “sotto al melo”. “Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino”. “Sono una volpe”, disse la volpe. “Vieni a giocare con me?”, le propose il piccolo principe, “sono così triste!” “Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”… “Che cosa vuol dire addomesticare?”… “È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami… Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”. “Comincio a capire” disse il piccolo principe. “C’è un fiore... credo che mi abbia addomesticato...”. La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: “Per favore... addomesticami”, disse. “Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe. “Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’più vicino”… Il piccolo principe ritornò l’indomani. “Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe... Ci vogliono i riti”. “Che cos’è un rito?” disse il piccolo principe… “È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore”…“Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi… È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante… Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...»: A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe, Rizzoli BUR, Milano 2016, passim.
[47] Vinca cioè le paure/tenebre del nostro cuore, dopo aver illuminato la mente con la sua Parola: Alto e glorioso Dio, illumina le tenebre del cuore mio: dammi fede dericta, speranza certa, carità perfecta…” (FF 276): così pregava Francesco all’inizio del suo cammino di conversione, alle prese anche lui con la “paura di Dio” che gli si era annidata nel cuore a motivo della vita vuota che aveva condotto prima.
[48]Kalani Murima. Siediti, cuore mio! Avventure di contemplazione, EDB, Bologna 1981: è il titolo di un bel testo sul tipo di preghiera di cui stiamo parlando, scritto da p. A. Marchesini, un medico dehoniano missionario in Mozambico dal 1969.
[49] D. BARSOTTI, San Francesco preghiera vivente…, p. 38.
[50] «Come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l'ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l'esistenza spirituale»: così Benedetto XVI, Omelia per il giorno di Pentecoste (31 maggio 2009).
[51] Rimando ancora alle acute considerazioni sulla preghiera come luogo del tedio e dello scoramento che si trovano in S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB, Bologna1997,alle pp. 417-419 e 595-597.
[52] J. PHILIPPE, Imparare a pregare…, pp. 89-91. Stupenda l’umile confidenza che Papa Francesco ha inserito nella Prefazione ad una edizione tedesca della Bibbia per giovani: “Voglio confidarvi come leggo la mia vecchia Bibbia. Spesso la prendo, la leggo per un po’, poi la metto in disparte e mi lascio guardare dal Signore. Non sono io a guardare Lui, ma Lui guarda me: Dio è davvero lì, presente. Così mi lascio osservare da Lui e sento – e non è certo sentimentalismo – percepisco nel più profondo ciò che il Signore mi dice. A volte non parla, e allora non sento niente, solo vuoto, vuoto, vuoto... Ma, paziente, rimango là e lo attendo così, leggendo e pregando. Prego seduto, perché mi fa male stare in ginocchio. Talvolta, pregando, persino mi addormento, ma non fa niente: sono come un figlio vicino a suo padre. E questo è ciò che conta”: in La Civiltà Cattolica n. 3972 del 26. XII. 2015, pp. 521.
[53] Un esempio di invocazione dello Spirito Santo e della Vergine Maria:
> Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli, accendi in essi il fuoco del tuo amore per il Signore Gesù e per il Padre!
> Madre della Luce, Signora della pace, Sede della Divina Sapienza, Vergine fedele, Aiuto dei cristiani, Regina dei Minori, Rifugio del peccatore che sono io… prega per noi e prega con noi!